L’opera che il potere sovietico avrebbe voluto che scrivesse l’ha scritta dopo la caduta del potere sovietico. Un’opera di regime quando quel regime non c’è più. Il 57° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale non rende un buon servizio a Sofija Gubajdulina nella serata in cui le viene consegnato il Leone d’oro alla carriera. Non evita (forse non poteva farlo) l’esecuzione in prima italiana di Glorious Percussion (2008), un esempio raro di vuota retorica. Magniloquenza senza inventiva. Si tratta di un Concerto per ensemble di percussioni e orchestra. Lo suonano nella sala del Teatro alle Tese cinque dei sei famosi membri delle Percussions de Strasbourg, in veste di solisti, e la compagine sinfonica della Fenice diretta da John Axelrod.

Ai tempi dell’Urss l’ottantaduenne compositrice, nata nella repubblica di Tatarstan, alla periferia dell’impero (oggi vive in Germania), venne osteggiata dai guardiani dell’ortodossia culturale. Quale il motivo? Una sua curiosità verso le avanguardie musicali occidentali? Possibile. L’ammirazione sconfinata per Webern e Messiaen è affermata da Gubajdulina durante l’incontro col pubblico alla vigilia del festival veneziano. Forse pesava anche la sua fede di praticante della religione ortodossa.
Se il motivo delle pressioni era una scarsa aderenza ai modelli musicali ufficiali, è un peccato (per loro) che i burocrati post-staliniani non abbiano potuto godere del loro tardivo successo. Glorious Percussion è un perfetto lavoro per celebrazioni. Comincia con folate cupe degli archi e con un gradevole sciabordio di strumentini percussivi, poi si svolge con i modi del poema sinfonico senza l’organicità del genere. Ci trovi forse vivacità e leggerezza o una ardimentosa mancanza di punti fermi? Magari! Solo un pasticcio imbarazzante. La densità emozionale che è un po’ la cifra di Gubajdulina appare come sterilizzata da un accavallarsi di melodie insipide. Opera fragorosa, però. Le percussioni sono parossistiche in certi crescendo di incredibile banalità. Cascami shostakoviciani, è chiaro. Nella serata è logico che l’esibizione di timbri ben lustri e di una drammaticità pomposa prosegua con la Sinfonia n. 3 (1981-1983) di Witold Lutoslawski, lavoro più astuto e più attuale nonostante l’età.

Ma gioca le sue carte migliori (che sembrerebbero le migliori) con poca perizia. È possibile,allestire un’opera straordinaria come [do action=”citazione”]La Biennale Musica di quest’anno non parte bene. Non ha un’idea della musica d’oggi, che nasce in tanti luoghi non solo nei Conservatori. Questo è evidente, basta leggere il programma. Vizio congenito, inutile sperare in cambiamenti futuri.[/do]Helicopter Streichquartett (1992-1993) di Karlheinz Stockhausen con sciatteria? Richiede grandiosità di mezzi tecnologici e di ingegno, altrimenti è meglio non farla. Purtroppo al Lido di Venezia, tra la Sala Grande del Palazzo del Cinema e il cielo, è possibile.

I quattro bravissimi virtuosi del Quartetto Arditti che suonano la singolare partitura a bordo di quattro elicotteri vengono ripresi dalle telecamere a inquadratura fissa e in questo modo proiettati nelle quattro sezioni in cui è diviso lo schermo sul quale il pubblico segue l’evento. Nessuna panoramica dell’inaudito «ambiente» dell’esecuzione, nessuna articolazione visiva del dialogo tra i musicisti. Regia cinematografica assente o pessima. E la regia sonora, difficilissima da attuare ma decisiva? Mediocre, a esser buoni. Il continuum modulato del rombo dei velivoli è componente essenziale dell’opera, come spiega nella presentazione in sala il direttore artistico Ivan Fedele. Lo si dovrebbe ascoltare insieme alla musica vera e propria (definita così in base alla vecchia, anzi decrepita, distinzione tra suono e rumore). Ma agli ascoltatori non ne giunge che una povera eco: la musica vera e propria, quella con le note scritte sul pentagramma, deve avere il sopravvento, il rumore degli elicotteri diventa, contro il parere dell’autore, un accidente, forse un male inevitabile, da tener sottovoce, da nascondere all’udito.

L’unico vantaggio è che così si capisce meglio che il brano non è dei migliori creati dal grande Karlheinz. All’inizio e alla fine è costituito da «ostinati» in unisono «sfasato», con tremoli e glissandi in abbondanza, e c’è pure il sospetto di una tentazione onomatopeica e descrittiva (il decollo, la danza degli elicotteri, l’atterraggio con «rallentando» e «diminuendo»). Solo negli episodi centrali l’interesse e il fascino aumentano, quando le parti si differenziano e le aspre sequenze di suoni diventano polifonia di battaglia aerea tra la musica e la tecnica, battaglia o corteggiamento, che spesso sono la stessa cosa.

Ma passiamo alle note liete. Poche, finora. Gli stessi quattro maghi dell’Arditti rendono al meglio lo String Quartet (1995) di Elliott Carter. Sciabolate decise degli archi, dissolvenze incrociate, suoni sparsi in libertà assemblati come per caso, magnificamente concordi/discordi. E intrecci di glissandi vitalissimi, e mirabili spazi di riflessione. Carter vivace e spregiudicato. Si mangia in un sol boccone, lui all’epoca ottantasettenne (è morto nel 2012 a 104 anni), i giovinetti scolaretti che gli Arditti, con generosità infinita, hanno messo nel loro concerto a Ca’ Giustinian: Andrea Portera (Grado, commissione della Biennale) e Evis Sammoutis. Solo Rebecca Saunders regge il confronto. Il suo Fletch (2012) è una delizia, tutto leggeri blocchi sonori, giochi di scivoli e di costellazioni puntiformi.
Poi c’è la rivincita di Gubajdulina. Con lavori da camera degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Quando era in effetti più aperta alla contemporaneità, di allora e, si potrebbe dire, di oggi. Nel suo modo di culto dell’anima e di un nobile lirismo. Nessuna traccia di tono liturgico religioso, come se ne trovano, invece, nelle opere più recenti. Daniele Roccato al contrabbasso solo negli Otto studi del 1974, con Fabrizio Ottaviucci al pianoforte in Pantomime del 1966 e nella Sonata del 1975, infine con Massimiliano Pitocco al bayan nel brano In croce del 1979 (rivisto nel 1991 e nel 2008).
Ecco i grandissimi, intelligenti interpreti di un’autrice che ci fa ascoltare note isolate «alla Webern» e passaggi bachiani di note singole, commoventi motivi schiromantici, assorte sequenze di «pizzicato».
Entusiasmo per Les percussions de Strasbourg alle Tese. L’ensemble più longevo e più potente di percussioni seduce il festival, manda in visibilio gli spettatori. Con il e commovente I funerali dell’anarchico Serantini (2006) di Francesco Filidei, un vero hit dell’autore. Con i gong erratici e misterici di Thai song (2009) di Alessandro Solbiati. Con la varietà di episodi e gli incroci miracolosi di marimbe e tamburi di Darkness (1984) di Franco Donatoni. Con la tellurica matematica analisi della materia sonora di Persephassa (1969) di Iannis Xenakis.

Finite le note liete. Visioni in prima assoluta, uno spettacolo per oggetti luminosi e sonori più ensemble strumentale, firmato dai compositori Daniele Ghisi e Eric Maestri oltre a vari registi visivi e sonori fa letteralmente disperare per nullaggine. La curiosità speciale del festival, la playlist dei compositori blogger di /nu/thing, è un buco nell’acqua. Dieci brevi pezzi di otto compositori più tre fumetti di Usavich che passano in Mtv: ma come li hanno scelti? Nel mondo non c’erano cose più stimolanti? Con tutto il rispetto per il Fabio Cifariello Ciardi di due dei suoi Piccoli studi sul potere e per il Simon Steen-Andersen di Next to Beside Besides, le cose migliori.

Il Luciano Berio di Epiphanies per soprano e orchestra, scritto nel 1959, ritirato nel 1965 e poi rivisto nel 1991, è irrimediabilmente accademia moderna, e certo non l’aiutano la spenta cantante Valentina Coladonato e la rigida direzione di Roberto Abbado alla guida dell’Orchestra del Comunale di Bologna. Nella stessa serata alle Tese la delusione maggiore viene dal nuovissimo lavoro di Claudio Ambrosini. La sua orchestra in Fonofania è brillante, vispa e sapiente, ma le sue voci bianche, alle prese con fonemi ricavati da quelli infantili di «prima della parola» ci fanno arrivare nenie all’incirca natalizie. E per giunta il coro bolognese di fanciulli, posto alle spalle degli spettatori, non si sente quasi per niente, grazie all’ennesimo dilettantismo acustico di non si sa chi.