La concezione del Mediterraneo che abbiamo oggi non è, dal punto di vista storico, poi così antica. È soltanto nel corso dell’Ottocento che il termine comincia a essere utilizzato diffusamente come sostantivo. Da allora in poi la storia del Mediterraneo è tornata di moda, nel senso migliore dell’espressione: oggetto di riflessione per la storiografia, la sociologia, l’antropologia, le scienze politiche – in riferimento al mondo antico, medievale, moderno ma anche strettamente contemporaneo, pensiamo al dibattito sul suo essere collegamento o frontiera tra i popoli che sul Mediterraneo si affacciano.

CONVIVONO nella riflessione contemporanea visioni fra loro opposte. Da un parte, quella esposta da Fernand Braudel nella sua opera magistrale, dove la lunga durata sembra corrispondere anche a una estrema ampiezza, poiché il Mediterraneo arriva idealmente a bagnare ben più delle sue coste, fino a forgiare civiltà anche lontane. Dall’altra, quella programmaticamente diversa di David Abulafia, che persegue una storia del Mediterraneo meno onnicomprensiva, incentrata sulle genti che vi hanno vissuto «sopra».
Proprio perché gli studi si affastellano un manuale sembra opportuno. Provvede a riempire il vuoto la traduzione di un’opera apparsa originariamente in Francia nel 2018: il libro di Daniel Baloup, David Bramoullé, Bernard Doumerc, Benoît Joudiou, I mondi mediterranei nel Medioevo (Il Mulino, pp. 308, euro 25), che come indica il titolo si «limita» ai secoli medievali, peraltro un periodo che non si giustifica soltanto con gli interessi degli autori, ma che trova una sua coerenza interna dalla fine del mare nostrum allo spostamento degli interessi marittimi principali verso le rotte atlantiche con la circumnavigazione dell’Africa e la scoperta del Nuovo Mondo.

IL VOLUME è diviso in tre sezioni principali, dedicate ognuna a una tematica: conquistare e integrare gli spazi, costruire società diverse, circolare e condividere. In ognuna si procede proponendo non impossibili (vista la lunghezza moderata del testo) quadri complessivi, ma spaccati di alcuni temi principali. Nella prima gli spazi riguardano gli stretti, il settore meridionale, il Mediterraneo orientale e adriatico, in misura minore quello tirrenico; nella seconda l’attenzione si concentra sui fenomeni migratori e su alcune aree specifiche (per esempio la Provenza, i Balcani, la penisola iberica) nelle quali la diversità sociale è testimoniata e gestita in ottiche differenti; nella terza si parla delle vie, terrestri e marittime, e di motivi culturali che hanno circolato insieme alle persone lungo queste rotte.
La lettura offre uno spaccato certamente interessante, che senza prendere troppo posizione su quale sia la concezione del Mediterraneo degli autori, offre molti spunti di riflessione e approfondimento. Da segnalare che l’edizione italiana, curata da Antonio Musarra, offre una pagina di bibliografia in italiano; come spesso accade i cugini d’oltralpe propongono infatti soltanto studi in francese e, in misura minore, in inglese, tralasciando completamente la storiografia italiana.

CHE LA CIRCOLAZIONE culturale abbia costituito una parte rilevante degli scambi mediterranei è indubbio: da una parte vi era un sapere tecnico, legato alle navigazioni, oppure scientifico come per la matematica, essenziale ai commerci; dall’altra lo spazio mediterraneo si apriva anche alle arti, alla letteratura, alla poesia, divenendone esso stesso metafora già dall’antichità. Come scriveva Orazio nelle Odi: «Io volevo cantare le battaglie e le vinte città, ma Febo mi ammonì con la lira di non mettermi sul mar Tirreno con piccola vela».
È opinione di Roberta Morosini che il Mediterraneo impregni anche l’arte di autori che siamo piuttosto abituati a legare al mondo delle città comunali, che peraltro proprio grazie ai commerci marittimi accumulavano parte delle loro fortune: ne parla nel suo Il mare salato. Il Mediterraneo di Dante, Petrarca e Boccaccio (Viella, pp. 352, euro 39), nel quale a una vasta introduzione su varie tematiche che intrecciano storie di mare e letteratura, seguono tre sezioni ognuna dedicata a un pilastro della letteratura italiana medievale.
Nonostante il libro sia un prodotto storico-letterario, piuttosto che storico tout court, le categorie della storiografia sul Mediterraneo sono ben presenti a Morosini, in particolare la definizione di Holden e Purcell che ne definiscono la «connettività», «categoria epistemologica che accoglie istanze geo-culturali e valorizza il mare in quanto connette o mette in comunicazione realtà geografiche e culturali diverse, come è normale avvenga per chi naviga nel Mediterraneo tra sponde tanto diverse, non limitandosi solo alla vita delle città costiere o alle rotte marittime ma anche all’interazione tra esse.
È una nozione storiografica, quella della «connettività», che coglie non tanto una realtà – nel Mare nostrum si affacciano tante culture diverse – quanto una funzione, perché il mare ha il ruolo di stabilire contatti fra mondi diversi in un network di pratiche e circuiti commerciali che riguarda anche piccoli commerci verso l’entroterra, inclusi il cabotaggio, le rotte locali e le reti regionali». È alla luce di questo concetto, per esempio, che si analizza la novella VIII.10 del Decameron, dedicata alla beffa di una donna siciliana a danno di un mercante. Nel complesso, una lettura sorprendente, rispetto al modo in cui siamo abituati a considerare Dante, Petrarca e Boccaccio.
Così come è sorprendente il cambio di scenario proposto da Francesco Saverio Annunziata in Federico II e i trovatori (Viella, pp. 356, euro 29).

LA POESIA E LA CULTURA dei trovatori è generalmente associata alla Francia meridionale e in particolare alla Linguadoca; tuttavia con l’inizio del Duecento la persecuzione contro i catari portava a una crisi del sistema sociale della regione; di qui l’esodo di alcuni poeti verso aree più accoglienti, come quelle delle corti italiane legate al ghibellinismo, cioè antipapali e antifrancesi: si ricordi infatti che la crociata antiereticale era stata sì cominciata da Innocenzo III, ma condotta con gli eserciti della corona di Francia, che vedeva in quell’episodio una buona occasione per porre fine alle ampie autonomie del Midi. In particolare, in Italia era la corte di Federico II ad offrire uno sbocco ideale a questi profughi, che vi trovavano un ambiente consono a sviluppare la loro arte.
Tuttavia, l’arrivo in Italia dello stile dei trovatori ebbe come conseguenza lo sviluppo di una poesia politica, spesso sì ghibellina, ma talvolta anche guelfa; così come vi erano coloro che manifestavano altre preoccupazioni, soprattutto in relazione alla perdita di Gerusalemme, addossata proprio alle lotte fra papato e impero, che avrebbero finito, a loro dire, per favorire i musulmani. Dalla Francia all’Italia, anche la poesia dei trovatori finiva per immergersi così nel clima del Mediterraneo.

 

SCHEDA

Lanfranco Cigala, poeta genovese in lingua provenzale, vissuto nel Duecento, è un trovatore ostile a Federico II, in «Si mos chanz fos de ioi ni de solatz»; sostiene che la perdita di Gerusalemme è responsabilità del papa come dell’imperatore: «Gerusalemme è un luogo abbandonato. Sapete perché? Perché manca la pace, infatti secondo la giusta allegoria Gerusalemme significa ‘visione di pace’, ma la guerra dei due grandi potentati coronati ha allontanato la pace qui e altrove, e non danno alcun segno di volere la pace. Non dico di chi è la colpa, ma chiunque di questi due grandi signori sia responsabile, che Dio lo raddrizzi o lo metta a morte presto!».