Il liberty e il déco italiano in questi ultimi anni sembrano aver condiviso il destino di Cenerentola che da sorellastra, sempre afflitta e «mesta accanto al fuoco», si fa un giorno sorella di pari rango con tanto di cocchio e scarpette; tant’è che oggi nessuno le negherebbe la perfetta educazione cittadina e dirla provinciale sarebbe giudicato una sconveniente matteria. Le recenti esposizioni di Reggio Emilia, di Forlì e di Rovigo hanno, d’altra parte, mostrato come l’arte italiana sapesse dialogare senza alcun imbarazzo con le coeve tendenze francesi, tedesche e austriache. Che poi il nostro paese fosse ben informato su codeste tendenze lo dicono gli articoli pubblicati da critici alacri, come Vittorio Pica o Raffaele Calzini, sulle eccellenti pagine di «Emporium» e i carteggi degli artisti, che studiosi non meno alacri vanno di giorno in giorno scoprendo. C’è un progetto di ricerca dell’Università di Siena, ad esempio, sulla corrispondenza di Pica e sulla sua attività in quotidiani e riviste che ha già prodotto un importante volume Vittorio Pica e la ricerca della modernità (Mimesis, 2016).
La mostra Maria Monaci Gallenga Arte e moda fra le due guerre, visitabile fino al 3 giugno nella Sala Aldrovandi della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, non è perciò che una fra le cuspidi di questa città per anni svanita sotto il deserto. Come le altre esposizioni che si sono appena nominate, questa sulla Gallenga, curata da Irene de Guttry e da Maria Paola Maino, raccoglie opere di genere diverso, senza fare distinzione fra arti maggiori e minori, com’era d’altra parte intenzione dell’artista, la quale «lavorò tenacemente al suo progetto di promozione dell’arte italiana all’estero, orientando un interesse inizialmente concentrato sulle proprie creazioni verso una proposta corale, intuendo i vantaggi e le opportunità di riunire e presentare al pubblico opere di artisti e linguaggi diversi».
Nel suo negozio in via Veneto 6 erano perciò visibili vetri di Zecchin, tele di Donghi e di Ferrazzi, ceramiche e disegni di Cambellotti così come molti degli oggetti in ferro battuto di Alberto Gerardi, oltre naturalmente alle creazioni sartoriali della stessa Gallenga: tutto ciò, adunato in questa piccola mostra come poteva trovarsi nei locali dell’epoca, fa l’effetto di un’antica fiala finalmente aperta. Gli oggetti stessi, d’altra parte, che si vedono esposti nelle quattro sale, sembrano aspirare, con comune accordo, a un’immaterialità di essenze racchiuse. Su tutti domina Zecchin. Egli fu davvero un artista di squisito valore: i suoi vasi, rarefatti e spirituali, fanno pensare che, se l’aria potesse cristallizzarsi, non sceglierebbe una forma diversa; ve ne sono molti degli anni venti, appartenenti a collezioni private. Di Zecchin sono anche alcuni mosaici e due arazzi ma soprattutto una tempera, Annunciazione, già vista all’esposizione di Reggio Emilia, e un ricamo su mussola, Le stelle della sera, il cui ieratico angelismo sembra essersi irradiato nelle opere circostanti: l’Angelo azzurro tra i cipressi di Adolfo De Carolis di un azzurro Redon e il superbo Portafiori a forma di alberello di fico di Gerardi che pare possedere, invece che foglie, fiammelle intente a montare sino alla sfera del fuoco di cui parlava Aristotele. Anche la Lampada a forma di alberello di pioppo del medesimo artista condivide questo tormento della materia che vuole liberarsi dall’uggia d’essere terrestre. Così, mentre si guardano le due delicate xilografie di Ettore di Giorgio, L’oiseau vert e La piccola Leda, non si può non pensare a come tutta quest’arte, smunta e allampanata, sia stata coeva alla reviviscenza dello spiritismo e che Robert de Montesquiou, il quale non poca parte ebbe nella definizione di questo stile, scrivesse in uno dei suoi poemi «Coloro ai quali i morti han parlato/ Han visto quel che non si vede/ Inteso quel che non si ascolta/ Sono stati sfiorati dal tocco/ Di strane mani in cui non si ha fede».
Anche gli abiti della Gallenga sono come trapunti d’aria: con il loro corpo di velluto e con le loro ampie maniche di tulle fanno somigliare le donne a libellule di Lalique o alle fate di Spenser rimesse a lustro da un Kay Nielsen. Il gusto déco, che si andava affermando in quegli anni, determinò il cupo bagliore delle stoffe sulle quali le figure, sontuosamente rilevate in oro, correvano simili a notturne apparizioni. C’è, ad esempio, una magnifica cappa in mostra: è in velluto di seta nera e su di essa trascorrono bionde fenici; anche nelle stoffe di Emanuele Cito di Filomarino, tuttavia, o in alcuni vetri di Zecchin, come la Coppa degli Aironi, vagamente nipponica, o la Coppetta con scarabei, può ritrovarsi il medesimo rapporto dei rilievi con lo sfondo, che conferisce un non so che di fantasmagorico alle figure. L’immagine di Vittoria, la cantante di Der Abenteurer und die Sängerin, dovette apparire per la prima volta a Hofmannsthal come ammantata di una simile fosforescenza. Fu forse questo aspetto di celeste apparizione che mosse un giornalista su «La Fiaccola» del marzo 1919 a scrivere di un «grande mantello» della Gallenga «che sembra spander la luce come un astro vivificante»?
Nel 1926 il negozio di via Veneto aprì una filiale a Parigi, negli anni successivi l’artista espose a New York e Chicago, perseguendo un medesimo ideale d’arte chic e cosmopolita inconciliabile con la grettezza nazionalista del regime mussoliniano: le stelle non soffrono angustia! La mostra ha un buon catalogo che diventa indispensabile vista la parsimonia di informazioni offerte dalle didascalie accanto alle opere, soprattutto per quel che riguarda tecniche e materiali, così importanti per un discorso sulle arti applicate di inizio secolo. È l’unica ombra di una esposizione che ha raccolto in un piccolo spazio opere di elevatissima qualità (non ultime le terrecotte e i bronzi di Cambellotti) e che costituisce un encomiabile contributo nella rivalorizzazione del nostro art déco, questa sfavillante Kitež travolta dalla barbarie della guerra.