Una mappa schematica ma fondamentale per chi voglia orientarsi dentro un territorio vasto e ignoto. Un po’ come la tubemap della metropolitana di Londra, secondo l’analogia cui ricorse anni fa Tony Grafton, l’autore di raffinati libri sulla cultura dell’umanesimo. Un’analogia efficace a rendere figurativamente il senso della pionieristica indagine di Arnaldo Momigliano sulla storiografia moderna a partire almeno dai primi anni cinquanta del ventesimo secolo. Fu Momigliano a scoprire l’importanza di studiosi completamente dimenticati, quali Tillemont, Mabillon o Montfaucon; fu lui a insegnarci che questi giansenisti e monaci benedettini vissuti tra il Sei e il Settecento sono i padri del moderno metodo storico, che invece delle eleganti narrazioni della storiografia classica, modello di quella rinascimentale, si dedicano ad analizzare minuziosamente le fonti, a discutere la loro attendibilità, a citare puntualmente i documenti abbandonando l’antica consuetudine dei discorsi inventati o ricostruiti, che costituivano la smagliante dimostrazione della padronanza retorica degli storici antichi.
L’immagine della mappa si può in realtà applicare anche a tanti altri campi sondati dall’inesauribile ricerca storica di Momigliano, come la storia degli studi classici, un settore tanto rigoglioso negli ultimi decenni quanto inesistente o quasi nel 1955, quando uscì il primo dei suoi memorabili Contributi alla storia degli studi classici, che con i due postumi curati da Riccardo Di Donato hanno raggiunto ora i dieci volumi (ma alcuni sono in due tomi); e si potrebbe guardare anche al problema dell’incontro-scontro di civiltà, greca romana e giudaica, anzitutto con l’Ellenismo tra IV e I secolo a.C. e poi più tardi con il confronto tra Cristianesimo e Impero romano, temi al centro dei suoi saggi già all’inizio degli anni trenta, quando sotto l’influenza dello storicismo di Benedetto Croce il precocissimo Momigliano cercava di leggere le vicende del mondo antico in chiave ideal-universale, secondo cui non esisterebbero periodi di pura negatività e i valori elaborati da un popolo o da un’intera epoca verrebbero dialetticamente ripresi da quella successiva.
Arduo, forse impossibile per un singolo fare un bilancio competente di tutte le mappe stese da Momigliano nel corso di quasi sessanta anni di studi, tra il 1929, quando si laureò all’università di Torino con il maestro Gaetano De Sanctis, e il 1987, l’anno della morte; tant’è che ai non pochi convegni in sua memoria hanno sempre concorso specialisti di molte aree, dalla storia greca a quella romana a quella giudaica, dalla storia delle religioni all’antropologia, dalla storia della storiografia, antica e moderna, alla storia della cultura tout court. Così anche per questo The Legacy of Arnaldo Momigliano («Warburg Institute Colloquia» 25, Nino Aragno editore, pp. 203, £ 50,00), curato da Tim Cornell e Oswyn Murray, che raccoglie i testi del seminario al Warburg di Londra sull’influenza di Momigliano negli studi storici in occasione del centenario della sua nascita (2008). Gli autori sono ex allievi inglesi e americani, più due italiani, tra cui Di Donato. Non è casuale la sede del Warburg: lì Momigliano aveva organizzato per anni dei seminari così innovativi su metodi e prospettive di ricerca da entusiasmare tanti studiosi allora in erba, segnandoli in modo duraturo. Pregio innegabile di questo volume è di voler stilare un bilancio davvero critico e non puramente elogiativo, individuando anche i punti di debolezza, accanto a quelli di forza, del pensiero e dell’opera di Momigliano; e in questo si distingue da tanti libri-omaggio in onore di grandi studiosi scomparsi. Si veda ad esempio l’intervento di Murray, che riflette con franchezza su aspetti che alla coscienza storica contemporanea appaiono problematici, come la centralità data agli individui come motore di cambiamento a scapito di istituzioni o altre forze socio-culturali; o l’emarginazione della filosofia e più in generale, aggiungerei, della teoria, tendenza tipica della sua età matura, piuttosto paradossale se si pensa alla necessità, più volte da lui asserita nei suoi elogi di Gibbon, di unire tradizione filosofica e antiquaria. Emerge anche, in vari contributi (di Murray, di Alan Cameron, dello stesso Grafton), l’impossibilità di accettare il suo rifiuto di considerare gli storici come narratori. Momigliano non si stancava di ripetere che gli storici, antichi e moderni che siano, vanno valutati per il contributo di verità dei loro studi, e più volte polemizzò anche aspramente contro quello che definiva il tentativo di ridurre la storia a retorica. Non voleva ammettere, insomma, che la storiografia, per quanto guidata dall’intento di cercare la verità dei fatti, è anche, e direi inevitabilmente, scrittura, che già solo nell’esporre ordinatamente una serie qualsivoglia di fatti presuppone una serie di operazioni intellettuali non ingenue quali la selezione e l’instaurazione di relazioni di causa-effetto che dipendono dal punto di vista adottato, che non può mai essere omnicomprensivo. E in quanto scrittura la storiografia mira a convincere il lettore dello statuto di verità di quello che dice e dunque ha, intrinsecamente, un carattere argomentativo e non semplicemente referenziale; per quanto lo si sia spesso negato, e lo si neghi persino oggi, è figlia anch’essa della retorica intesa nel suo senso primo di ‘arte di parlare a un uditorio per persuaderlo’, che è anche l’accezione aristotelica.
Un altro elemento di perplessità che ritorna in vari contributi di questo libro è legato al giudizio sul cristianesimo, che negli anni trenta Momigliano giudicò l’unica entità spirituale capace di appropriarsi dell’eredità sia ellenica sia giudaica e di far convergere pace e libertà; un giudizio legato a una visione idealistico-teleologica della storia come progresso che Momigliano confermò anche a distanza di decenni nonostante la rivisitazione dello storicismo da lui compiuta, meno radicale tuttavia di quanto asserito (il che tra l’altro dimostra come sbagliasse a suo tempo Carlo Ginzburg a sostenere che l’uscita di Momigliano dallo storicismo fosse definitiva, a differenza di Ernesto De Martino). A questo studioso che i problemi della storia non solo antica sapeva affrontare con un’intensità fuori dal comune dobbiamo tutti molto, non solo gli allievi che hanno contribuito a questo volume. È tempo di meditare anche quello che Momigliano non vide.