Malgrado il neoliberismo punti a sottomettere arte e cultura alla ragione economica, il museo pubblico resta ancora oggi un’istituzione preziosa, se non altro in quanto fonte di prestigio e veicolo promozionale. Nato come strumento di legittimazione e propaganda degli interessi delle classi dominanti, il museo ha servito dapprima l’aristocrazia, poi la borghesia e infine si è reincarnato come «tempio populista dello svago». Esistono vari tipi di musei, ma il requisito fondamentale è una collezione da conservare e comunicare; e siccome organizzare una collezione significa necessariamente strutturare una narrazione, la visita di un museo è sempre l’esperienza di una visione ideologica. Al museo d’arte contemporanea, oltre a ciò, spetta l’incombenza di comporre la propria collezione pescando nel magma del presente, mansione che lo obbliga alla promiscuità con il mercato, i collezionisti e le gallerie private.
Il ruolo del museo contemporaneo è l’argomento di un breve saggio della studiosa inglese Claire Bishop, scritto nel 2013 e ora edito in Italia con il titolo Museologia radicale Ovvero, cos’è «contemporaneo» nei musei d’arte contemporanea? (Johan & Levi, pp. 88, euro 11,00, traduzione di Nicoletta Poo, con disegni di Dan Perjovski). Bishop critica le strategie dei grandi musei internazionali quali riflessi di una distorta idea di contemporaneità. «Osservando il panorama globale dei musei di arte contemporanea ci si rende conto che ciò che li accomuna non è tanto un interesse per la collezione, la storia, la posizione o gli obiettivi che si pongono, quanto l’idea che la contemporaneità debba manifestarsi al livello dell’immagine: qualcosa di nuovo, cool, fotogenico, ben progettato, redditizio».
La proliferazione di musei del contemporaneo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo – la stagione delle archistar – è andata di pari passo con la loro progressiva privatizzazione. Nel frattempo si è transitati da un criterio cronologico di ordinamento delle collezioni a uno tematico. «Nel modello del museo moderno, di cui il MoMA è l’esempio principe, la narrazione guida è il tempo storico lineare, che precede in avanti seguendo un orizzonte al centro del quale vi è l’Occidente; il suo dispositivo di enunciazione è il white cube, pensato per il concetto moderno di pubblico. Nel museo postmoderno, esemplificato dalla Tate Modern e dal Centre Pompidou, l’impianto concettuale è il multiculturalismo, visto nell’equazione tra contemporaneità e diversità globale; la sua struttura di mediazione è il marketing, che si indirizza a diverse fasce di popolazione, ciascuna con un preciso peso economico».
È stata una transizione favorita dagli artisti, perché il rifiuto avanguardista di un’idea autorevole di storia e la critica istituzionale portata avanti più tardi dalla neoavanguardia hanno creato le premesse per una programmazione espositiva condizionata dall’obsolescenza delle merci e dalla successione delle mode. Il relativismo appiattisce tutti gli stili e le opinioni sul valore di scambio e così risponde perfettamente alle sollecitazioni del mercato per l’adeguamento dell’arte al flusso immateriale del capitale; inoltre esonera curatori e conservatori dalla responsabilità di esprimere una posizione precisa. Eppure, «se passato e presente collassano in cluster transtorici e transgeografici, come si possono comprendere le differenze tra luoghi e periodi?».
L’analisi di Bishop si fonda sulla contrapposizione di due modelli concettuali: il primo, censurabile, è il «presentismo», «per cui si eleva il momento attuale a orizzonte e punto d’arrivo del pensiero», e si perde di vista il momento storico nella sua globalità. L’alternativa è rigettare la deriva relativista evitando però di regredire allo storicismo, a un quadro univoco e totalizzante. Bisogna «passare a una comprensione più acutamente politica della direzione che possiamo o che dovremmo prendere» e pertanto smettere di considerare il contemporaneo in termini di periodizzazione o finzione discorsiva, per ripensarlo come metodo o pratica. L’autrice chiama questa opzione «contemporaneità dialettica».
Bishop propone tre esempi: il Van Abbemuseum di Eindhoven, il Reina Sofía di Madrid e il Muzej sodobne umertnosti Metelkova (MUSM) di Lubiana – tre luoghi che devono il loro nome, rispettivamente, a un industriale, a una regina e a una base militare… Pur essendo realtà molto diverse tra loro, hanno tutte cercato di conciliare la missione sociale e didattica del museo con le esigenze di bilancio, senza cedere alla logica conformista di mostre blockbuster. L’elemento virtuoso nei casi presentati è dato dalla volontà del museo di porsi quale narratore storico schierato e interrogarsi sulle proprie motivazioni; a livello tecnico ciò è stato fatto mediante riletture incrociate e un uso creativo dell’archivio e della documentazione, integrando negli allestimenti opere, copie, ricostruzioni e materiale extra-artistico.
Nell’epoca in cui il maggior museo di arte contemporanea in Italia esplicita tutta l’insipienza di una classe dirigente attraverso un ordinamento – che nemmeno si dichiara tale – fatto di vaniloqui narcisistici, Bishop invita a vedere «il museo come un agente attivo, calato nella storia, che non parla nel nome di un orgoglio o di un’egemonia nazionale ma pone domande e articola un dissenso creativo. Non vuole uno spettatore incantato in una contemplazione auratica di singole opere, ma uno consapevole di avere di fronte questioni e posizioni da leggere e magari contestare».