Almeno dalla metà degli anni ottanta la fotografia di Carlo Mollino (Torino 1905-’73) sorprende per il successo che riscuote: migliaia di copie vendute per ogni nuova pubblicazione dei suoi scatti, quotazioni sempre più alte per le rare stampe originali battute all’asta. Un aspetto questo che concerne la sociologia dell’arte, anche se di continuo si ripete che nulla è disgiunto nel lavoro molliniano, il fotografo non è separabile dall’architetto. La fortuna critica di Mollino fotografo si deve in gran parte alla passione di Fulvio Ferrari, un chimico con interessi per il design e il modernariato, che scoprì la sua opera grazie a Toni Cordero (Torino 1937-2001) che nel suo ultimo periodo ebbe per i raffinati intérieur molliniani più di un’ispirazione. Ferrari oggi presiede la Fondazione Casa Museo Mollino a Villa Avondo, in via Napione: uno spazio vissuto, ma in realtà mai veramente abitato, dall’architetto torinese, che Ferrari ha restaurato qual era: luogo di incontri, «dimora dell’anima» – secondo la ritualità egizia del culto dei defunti al quale sembrerebbe rinviare più di un indizio –, ma soprattutto set fotografico per i celebri ritratti femminili di Mollino.
Sono infatti le donne, più in generale la figura umana, il tema ricorrente della sua fotografia, come si può constatare visitando la mostra che Camera- Centro Italiano per la Fotografia di Torino gli dedica fino al 13 maggio: L’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934-1973. Sostiene il curatore Francesco Zanot in catalogo (Silvana Editoriale) che Mollino «fotografa diversi soggetti, in diverso modo, con tecniche diverse»; pare fuorviante se non «impossibile» suddividere i suoi scatti «in maniera definitiva e discreta». Tuttavia è altrettanto assodato che un solo tema lo accompagna per l’intero suo percorso fotografico: le singole persone – volti e corpi di donne, acrobatici sciatori –, oppure gruppi d’individui, ora anonimi come quelli incontrati da curioso turista nei suoi viaggi, o così particolari come i piloti di motociclette e auto da corsa ripresi durante i loro raduni, acrobati del volo, esperti sciatori. In loro si rispecchia, essendo qualcosa di più di un praticante di quelle discipline sportive.
Già nella prima sezione si mescolano gli scatti di architettura con quelli di donne in posa dentro case opportunamente allestite. Accanto alle stampe della Sede della Federazione Agricoltori di Cuneo (1934) troviamo i ritratti austeri di Lina Suwarowski, oppure insieme ai provini della Mole, necessari per illustrare il suo saggio sull’Antonelli, si presentano eleganti signore vestite di velluto o in seta sedute molli sui divani. Ciò che distingue queste immagini rispetto a tutte le altre sono solo i modi attraverso i quali si compie ciò che Mollino definisce la «trasfigurazione soggettiva». Il concetto lo illustrerà in un libro, Il messaggio della camera oscura, pubblicato nel 1949 da Chiantore ma steso sei anni prima. È lì che egli espone la sua riflessione estetica a conclusione di un periodo di raffinata ricerca sugli interni della casa (Casa Miller, 1936; Casa d’Errico, ’37, Case Devalle, 1939-’40) e sui singoli elementi di arredo – gli stessi che poi formano le scenografie nelle quali, in ricercate pose, si atteggiano le sue modelle. Per Mollino la fotografia è, come qualsiasi altra creazione artistica, il risultato di un processo selettivo determinato dal caso e dalla sensibilità dell’operatore, il quale sempre stabilisce con il soggetto una relazione autonoma e affatto condizionata dall’apparecchio fotografico. Quest’ultimo è solo il mezzo di una «nuova acutezza percettiva» – «la mitragliatrice di Marrey» – attraverso cui, appunto come per altre forme d’arte, si determina il risultato estetico. Occuparsi o «rinverdire» i soggetti prediletti dai fotografi ridotti a «luogo comune» è «opera rara del gusto, se non di poeta». È solo esercitando l’«esperienza critica e tecnica» finalizzata alla «politica del gusto» che per Mollino si risolve la dicotomia tra artistico e non-artistico, tra fotografia «quadro» e riproduzione testuale della realtà. Egli sa con certezza che nel «dominio dell’ineffabile» lo «traghetta» tanto una fotografia quanto una «consacrata pittura», siano essi dei «personali documenti» o «fantasie di un quotidiano possibile»: poiché non c’è distinzione tra soggettivo e oggettivo.
Ha scritto Daniela Palazzoli che per Mollino «la fotografia diventa interessante quando ha solo l’apparenza del documento, del duplicato». Da qui la ragione (in parte) che lo spinge al fotomontaggio e al collage. Prendiamo ad esempio una serie di foto di sue architetture. Un anno dopo il rilievo fotografico della Sede della Società Ippica Torinese (1937-’40) egli realizza una serie di montaggi inserendo un cavallo del tedesco Hein Gorny davanti all’immagine della facciata o in quella delle stalle. Poi aggiungerà cieli nuvolosi sullo sfondo del plastico di un Condominio a Sanremo (’46) e il Cervino su quello della Casa del Sole (’47). L’intenzione è quella di denotare simbolicamente un oggetto, ma anche di immaginarlo plausibile ancora prima che esista. Questo espediente gli proviene dai surrealisti (Man Ray) e dai suoi controversi precursori (Atget) ai quali rinviano i «ritratti ambientati» che Scheiwiller pubblicherà in una collanina alla metà degli anni quaranta dal titolo Occhio Magico. Specchi, tendaggi e veli, maschere e pellicce si fondono con volti e sguardi femminili senza che siano posti limiti alla fantasia. L’eros si risveglia nelle natiche siglate CM di una donna in ginocchio davanti a una Olivetti Lexicon, ma è solo un’avvisaglia.
In seguito, conclusa una fase di messa a punto con il colore e la pellicola (Leica), la scoperta della Polaroid gli consente di comporre un repertorio di immagini erotiche che – come scrisse Arpino presentandole nel 1985 per la prima volta – sono «curate con la tenacia e la perizia di un orafo rinascimentale» tra allestimento, scatto e ritocchi manuali. La metodica costruzione teatrale di ognuna di queste piccole foto fa certo riferimento all’«ossessione privata» per la tecnica e il soggetto, come dichiara Paul Kooiker (intervistato da Erik Viskil). Tuttavia, riprendendo le acute osservazioni di Arpino, la «luciferina mania perfezionistica» di Mollino resta enigmatica come le donne fotografate – «fresche ma cupe, i loro gesti classici ma catacombali» – e insieme mobile e inafferrabile come il «drago da passeggio» di carta che nel Natale del ’63 Mollino regala ai suoi amici. Per comprendere le sue trasfigurazioni fotografiche può essere utile quanto Gene Pampaloni scrisse riguardo alla scrittura di Italo Cremona tra la cerchia degli amici più cari. Come Cremona, Mollino soffre una «certa solitudine» che è data dalla sua aristocrazia di sensibilità e gusto. Entrambi sono «realisti in negativo», consapevoli che la storia «penetra ovunque, anche nel surreale, nell’onirico, nell’immaginario impossibile, nell’a-storico»; e la fotografia, come la scrittura, è un «esorcismo contro l’inesistenza».
Ci sarà modo di ritornare sull’argomento dopo che sarà conclusa, come Enrica Bodrato spiega in catalogo, la fase di schedatura e completa digitalizzazione del fondo fotografico dell’architetto-designer conservato presso il Politecnico di Torino: da esso la mostra ha estratto un’adeguata selezione di materiali, per farci di nuovo entrare nel privato, criptico e bizzarro mondo di una delle personalità più singolari del nostro Novecento.