Intorno a Carlo Mollino fotografo si è detto in lungo e in largo moltissimo e sempre nella direzione di mettere in risalto la sua parte decadente e surrealista, spesso erroneamente considerata «altro» dalla sua attività di architetto e design. È quella, ad esempio, che segna le sue polaroid con i ritratti di nudi femminili inquadrati sullo sfondo di ambienti notturni e seducenti. Tuttavia la loro mise en scène, pensata in ogni singolo dettaglio nelle ville Scalero o Zaira o ancora nel suo appartamento di via Napoleone, riteniamo che orbiti a pieno diritto nel mondo eccentrico, e per molti versi esoterico, dell’architetto torinese al pari della sua architettura.

Nonostante le molteplici indagini critiche è però meno noto l’uso che della fotografia Mollino fece con altri intenti, tecniche e linguaggi ma altrettanto utile per comprendere quell’«unità delle arti» della quale è stato sempre un convinto sostenitore. Giappone 1970 (Humboldt Books, pp. 72, euro 18,00) è la raccolta di una serie di foto che Mollino scattò durante il suo viaggio nel paese del Sol Levante in occasione dell’Expo ’70. Conservati presso la Biblioteca di Architettura del Politecnico di Torino, gli scatti dell’architetto torinese hanno avuto lo scorso anno un primo importante riconoscimento nella mostra Carlo Mollino: In viaggio organizzata a Torino presso Camera – Centro Italiano per la Fotografia. Lì le fotografie esposte riguardavano una selezione dei suoi reportages intorno al mondo, mentre il libro in questione ci racconta il tour organizzato dall’ordine torinese degli architetti e degli ingegneri nella città sede dell’esposizione mondiale (Osaka) insieme a Tokyo e Kyoto, anche se alcune pagine finali riguardano «Altri Orienti»: da Bangkok con i suoi templi buddhisti (Wat Arun) alla Chandigarh di Le Corbusier.

Peccato che l’editore abbia trascurato di identificare per il lettore le città e i luoghi delle riprese, oltre ad averle riprodotte tutte in modo così imperfetto. In ogni caso le immagini del tour nipponico, pur non essendo all’origine delle «belle» foto, comunicano con esattezza le intenzioni del fotografo. L’esecuzione è la stessa di tutti i suoi racconti fotografici di viaggio: rapidità della ripresa con macchine di piccolo formato (Leica, Polaroid) per raccogliere un bagaglio essenziale di informazioni su culture e società sconosciute e non ancora così somiglianti per via della globalizzazione. Infatti il Giappone che ritrae Mollino in occasione dell’Expo è il modello più concreto, come scrive Claudio Giunta nell’introduzione, di ciò che all’epoca è per l’uomo la «visione del futuro»: forse l’ultima, «non ancora guastata dalle angosce» che di lì a qualche decennio avrebbero cambiato l’assetto geopolitico della Terra tra i pericoli ambientali dell’inquinamento e l’avanzare della finanziarizzazione dell’economia mondiale.

Nel 1970 il Giappone «è la terza potenza economica del pianeta dopo gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Venticinque anni prima era una distesa di rovine, adesso è il maggiore produttore mondiale di navi, motociclette, macchine fotografiche, radio a transistor e dal suo territorio passa il 7% del commercio internazionale». Si deve ancora manifestare la stagnazione che dagli anni novanta colpirà l’economia nipponica: anche se si manterrà solida e oggi è in lieve crescita. Mollino trasmette con i suoi scatti l’entusiasmo diffuso nel paese. Nei sei giorni di visita ritrae giovani coppie in conversazione, donne sorridenti, scolaresche in posa per la foto-ricordo e il caos rumoroso della folla nel chiuso di un aeroporto (o metropolitana?) come certo era impossibile scorgere sotto la Mole.

All’architettura rivolge uno sguardo selettivo. È attratto da quella tradizionale – i templi buddhisti o, a Kyoto, il santuario di Heian-jingu con i suoi magnifici giardini e le costruzioni che si rispecchiano nell’acqua degli stagni – ed è incuriosito da quella anonima, orizzontale e composita, nel modo come si combina nel moderno tessuto della metropoli. Delle «avanzate architetture dell’Expo», scrive Fulvio Ferrari , Mollino fotografa «solo frammenti», particolari tecnici di un nodo strutturale o di una superficie. Ciò nonostante «non documenta tecniche ma sensazioni» perché è convinto che tutte le vie possono condurre alla «commozione estetica»: ciò che realmente gli interessa. Nel suo scritto Vedere l’architettura (Agorà, 1946), dove si cimentò nella vexata quaestio sul significato di contenuto e forma nell’opera d’arte, Mollino scrisse che nel Rinascimento come in Oriente l’arte «vive nella forma senza alcun legame logico di associazione tra questa e la sua esigenza tecnica”. L’architettura al pari della fotografia appartengono all’arte e vivono entrambi “entro i soli confini della verità dell’espressione poetica”. Il progresso dei “mezzi tecnici”, o in altri termini l’“eccesso di scienza”, non sono un limite piuttosto un’occasione in più offerta in direzione della “trasfigurazione fantastica della realtà sensibile”: quella alla quale Mollino ha rivolto in solitudine ogni suo impegno.