Le due produzioni maggiori del Rossini Opera Festival, ascrivibili al genere dell’opera seria, eseguite dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, sono imponenti, come si confà allo spazio scenico della Vitrifrigo Arena in cui sono allestite. Si comincia con Moïse et Pharaon (1827), che Rossini compone appena due anni prima del suo congedo definitivo dal teatro lirico, terza sua opera parigina di grande successo, con la quale, dice la stampa, salva l’Opéra dal declino italianizzandone le esecuzioni canore. Come nelle successive Le Comte Ory e Guillaume Tell, in Moïse il compositore si diverte a rifare se stesso superandosi e, in questo scorcio di appena due anni, a superare il teatro di inizio Ottocento seminando i germi del romanticismo maturo. Giacomo Sagripanti dirige con grande partecipazione cercando di mettere a fuoco quei germi e di farli risuonare in tutta la loro potenza anticipatoria, eseguendo anche la cantata finale di giubilo che Rossini decide di cassare prima del debutto, a favore di un finale in tono minore. La regia, le scene e i costumi Pier Luigi Pizzi, con le luci di Massimo Gasparon, danno vita a un allestimento ieratico e minimalista, rispettoso dello spirito dell’oratorio religioso cui si rifà l’opera. Roberto Tagliavini, Eleonora Buratto e Vasilisa Berzhanskaya fraseggiano superbamente, con grande varietà di colori e dinamiche; Erwin Schrott tuona gesticolando grottescamente per tutto lo spettacolo; in difficoltà Andrew Owens; convincenti Alexey Tatarintsev, Matteo Roma, Monica Bacelli e Nicolò Donini.

Si prosegue con Elisabetta regina d’Inghilterra, sesta opera seria di Rossini, la prima di ambientazione moderna, nordica e storica e con tutti i recitativi accompagnati, che segna il suo debutto trionfale a Napoli nel 1815. L’Inghilterra dipinta dal libretto di Giovanni Schmidt, lontana dalle passioni travolgenti che la squasseranno in Lucia di Lammermoor, I puritani o Macbeth, è un astratto contenitore di affetti borghesi e allo stesso tempo un pretesto di celebrazione monarchica.  L’allestimento del Rof, una coproduzione col Teatro Massimo di Palermo, parte proprio da quel nucleo astratto-celebrativo per creare una macchina scenica complessissima e abbagliante in cui le scene di Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi, le luci di Nicolas Bovey e il videodesign di D-Wok, coordinate dall’immaginazione trascinante del regista Davide Livermore, creano uno spazio multistrato che, grazie all’integrazioni di materiali e bit, acquisisce illusionisticamente la chiusura di architetture che hanno la geometria del potere nei momenti d’azione e l’apertura infinita di scenari naturali sublimi durante le sezioni liriche, a ricordarci che Elisabetta (la I del libretto si fonde con la II della serie Tv The Crown) è una regina infinita nel senso materiale del tempo (i due regni sono lunghissimi) e in quello immateriale del simbolo (la monarchia). Evelino Pidò dirige da sinfonista trovando nella partitura spessori armonici e colori inauditi, talvolta a scapito della celerità richiesta dall’azione. Tutto il cast si cala nella visione del regista; a parte quella di Sergey Romanovsky, le voci mancano di timbri uniformi lungo la loro estensione; Karine Deshayes è un’ottima vocalista, ma generica nel fraseggio; Salome Jicia suona metallica; fastidiosamente traballante Barry Banks.

Tra le due opere maggiori viene proposto al Teatro Rossini Il Signor Bruschino, atto unico del 1813, ultimo del periodo veneziano che ha dato inizio alla folgorante carriera di Rossini, unico suo cocente insuccesso per divergenze con l’impresario del Teatro San Moisè. Gemma dello stile farsesco in voga all’epoca, che Rossini, come fa con ogni altro stile, porta a compimento saturandolo, dilatandolo e inserendovi elementi parodici e metadiscorsivi, l’operina viene allestita, in coproduzione con la Royal Opera House Muscat e con il Teatro Comunale di Bologna, con regia, scene e costumi del duo Barbe & Doucet e le luci di Guy Simard: forse in omaggio al luogo e alla stagione dell’anno in cui si svolge il Rof, o forse per esplicitare l’intrinseco carattere di svago e divertimento, la storia si volge tra una navetta e la banchina del porto in cui è attraccata, in una rilettura del libretto a suo modo convincente, soprattutto grazie all’interazione sempre calibrata e gustosa dei cantanti con costumi e scene attraverso le azioni. Michele Spotti dirige la Filarmonica Gioachino Rossini con grande attenzione ai dettagli, cercando di cavare dalla partitura, la cui leggerezza è fisiologica, prelibatezze ritmiche e timbriche (in particolare quelle che sgorgano dalle sezioni sentimentali). Marina Monzò svetta vocalmente su tutti, ardita e vaporosa; si mostrano padroni della scena Pietro Spagnoli e Giorgio Caoduro, pur con qualche affanno vocale.