Sono pochissimi coloro a cui il nome di László Moholy-Nagy non dice molto, ma pochi ancora immaginano l’ambiente in cui il grande artista si formò, gli artisti che frequentò, gli esperimenti e le tecniche artistiche che attraversò dentro la cultura del suo paese di origine, l’Ungheria. «Tanto versatile e variopinto è stato l’ambito della sua attività che potremmo definirlo ‘leonardiano’. Riusciva a tenere in equilibrio questa eccezionale varietà di interessi con la forza dell’immaginazione», scriveva di lui Walter Gropius che, impressionato da quella geniale versatilità «rinascimentale», lo chiamò a insegnare al Bauhaus.
Questa eccezionale varietà di interessi si dispiega in una mostra alla Galleria comunale d’arte moderna di Roma, attualmente in formato on line, La rivoluzione della visione. Verso il Bauhaus. Moholy-Nagy e i suoi contemporanei ungheresi a cura di Katalin T. Nagy per la parte ungherese e di Claudio Crescentini e Arianna Angelelli per la parte relativa agli artisti ungheresi a Roma tra le due guerre.

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MOLTE LE COLLABORAZIONI museali ungheresi che hanno permesso arrivasse in mostra una quantità davvero importante di dipinti, fotografie, grafiche e film compresi tra gli anni Dieci e gli anni Quaranta del Novecento raramente in circolazione, mentre dalla Galleria romana e dall’Istituto Luce vengono le opere degli artisti ungheresi che a Roma soggiornarono e la documentazione di quei soggiorni.
Da ultimo, provengono dal Fondo Prampolini le lettere di Moholy-Nagy e Gropius all’artista modenese. Una intera ricognizione che quindi comprende gli avvii dell’artista dentro l’esperienza futurista, espressionista e abbraccia per intero il periodo più fulminante dentro il Bauhaus, anche nella sua sfortunata appendice americana degli anni Quaranta, e arriva fino alla creazione della School of Design a Chicago.

QUELLO CHE EMERGE da questa mostra è la straordinaria temperie artistica che contrassegnò alcuni decenni europei. Un collettivo e splendido sforzo creativo e teorico da cui certamente figure come quella di Moholy-Nagy emergono in modo dirompente, ma che non può più tralasciare, in qualsiasi ricostruzione critica, che la potenza di alcuni si muoveva dentro un costante confronto con altri che sperimentavano in ogni parte del continente.
Per quanto riguarda l’Ungheria, quelli sono decenni in cui le avanguardie si incalzano le une con le altre e spesso i loro artefici percorreranno, dopo la fine della Repubblica dei Consigli, il medesimo tragitto di Moholy-Nagy – Budapest Vienna Berlino – dopo essere magari passati per Parigi. La mostra costruisce quindi un dialogo a più voci in cui contemporaneamente si dipana l’intera creatività di Moholy-Nagy.

LE INCANTEVOLI CARTOLINE postali spedite alla famiglia tra il 1915 e il ’18, così apprezzate che abbandonò l’idea di diventare uno scrittore come l’amato Dostoevskij e affrontare definitivamente le arti visive, si possono guardare insieme alle opere di Sándor Bortnyik, una carriera cominciata come futurista, passato anche lui per il Bauhaus e poi diventato uno dei pionieri della grafica pubblicitaria. I primi dipinti tra il fauvismo e l’espressionismo, come lo splendido I colli di Buda, con le opere di Ede Bohacsek, uno dei fondatori, insieme a Moholy-Nagy, del movimento e della rivista MA, morto giovanissimo. E si prosegue in un costante confronto con Berény, Kassák, Béla Uitz da cui emerge sì l’essere immerso dell’artista nella cultura internazionale dell’Ungheria di quei primi due decenni del Novecento e ma anche, e nettamente, la strada personalissima da lui percorsa. Dove la figurazione si costruisce sempre di più dentro una geometrizzazione dell’universo che arriva a frammentarlo e poi, con la scelta della fotografia, del collage fotografico e dei fotogrammi, a ricomporlo dove l’oggetto e la figura umana si ricostruiscono come astrazione di pura luce.
«Il fotogramma incarna l’assoluta particolarità del processo fotografico poiché consente la presa diretta dei processi luminosi indipendentemente dalla macchina fotografica. È l’arma più intrisa di spiritualità nella lotta per una nuova visione». In queste parole di Moholy-Nagy, che aprono in mostra la bellissima parte dedicata alla fotografia e ai suoi derivati, c’è chiaramente la meditazione intorno a Lo spirituale nell’arte di Kandinsky, a quel retrocedere dal dato di natura, a quel «principio della necessità interiore» che deve aprire al nuovo vedere, anzi al nuovo sentire, e che l’artista ungherese cerca e riesce a ricondurre dentro una linearità abbagliante in cui il bianco e il nero diventano l’auspicata «sinfonia pittorica» kandiskyana.