László Moholy-Nagy, “Funkturm Berlin”, 1928, foto Smlg. Antal-Lusztig

Un rinnovato interesse per lo studio delle relazioni tra pittura, fotografia e architettura nella Germania degli anni venti – quando, secondo la testimonianza di Sándor Márai, «a Berlino incominciavano a sorgere i grattacieli e proliferavano le magnificenze architettoniche delle metropoli, e stranieri geniali conducevano i loro esperimenti all’interno di fabbriche modernissime e laboratori strabilianti» (Confessioni di un borghese (1934-35), Adelphi 2003) – è alla base di due mostre tra loro complementari. Alla Berlinische Galerie Magyar Modern (a cura di Ralf Burmeister e Thomas Köhler, aperta fino a domani) circoscrive il tema al contributo degli artisti ungheresi al contesto berlinese tra 1910 e 1933, mentre The Cold Gaze – Germany in the 1920’s, a cura di Angela Lampe, è ora allestita (fino al 19 febbraio) al Louisiana di Humlebæk (Danimarca), dopo la tappa al Centre Pompidou nel 2022, con un titolo più direttamente riferito all’originalità di un progetto espositivo che pone l’opera di un fotografo al centro di una ricognizione storiografica di vasto respiro: Allemagne / Années 1920 / Nouvelle Objectivité / August Sander.
La mostra berlinese, realizzata in collaborazione con il Museo di Belle Arti di Budapest, è costruita sull’intersecarsi di tre diversi tracciati visivi: una mappa di Berlino, un diagramma di trasformazioni e invenzioni linguistiche, una rete di rapporti tra critici, pittori, architetti e fotografi tedeschi e ungheresi. Il prologo coincide con un passaggio quasi obbligato, la fase di allineamento della punta più avanzata dell’ambiente artistico magiaro alla koiné europea fondata sul rifiuto del realismo accademico e sull’apertura alle influenze di Cézanne e Matisse.
Nel 1910 i protagonisti di quel rinnovamento, riuniti nel Gruppo degli otto, vennero invitati dal collezionista e mercante Paul Cassirer a esporre nella sede della Berliner Secession. Dalla metà del decennio i parallelismi si fecero più stringenti; nel 1916 l’artista e scrittore Lajos Kassák avviava a Budapest la pubblicazione della rivista «Ma» (Oggi), ricalcando il programma di diffusione dei linguaggi delle avanguardie di «Der Sturm», fondata da Herwarth Walden a Berlino nel 1910. Con la fine della guerra e dell’impero asburgico Kassák impresse una svolta radicale alla sua rivista, che nel 1919 abbandonò il sottotitolo di «Rivista d’arte» per adottare quello di «Rivista attivista per l’arte e la società». Nei 133 giorni della Repubblica ungherese dei Consigli, tra marzo e agosto del 1919, «Ma» appoggiò il programma di democratizzazione della cultura coordinato da György Lukács e promosse la produzione dei manifesti di informazione e propaganda che tappezzarono con cadenza quotidiana le vie di Budapest – molti dei quali presenti in mostra –, alcuni segnati da un realismo espressionista vicino a quello di Käte Kollwitz, altri da stilizzazioni cubo-futuriste.
Dopo la repressione di quell’esperimento politico, artisti e intellettuali progressisti furono costretti ad abbandonare l’Ungheria e molti vissero come émigrés nella Berlino degli anni venti. Centrale fu ancora una volta il ruolo di Kassák, che in un volume pubblicato nel 1922 insieme a László Moholy-Nagy – Buch neuer Künstler (Il libro dei nuovi artisti) –, sottolineò i legami tra arte moderna e tecnologia, con particolare attenzione al cinema astratto e a quell’interdipendenza di pittura e architettura che caratterizzò l’adesione al costruttivismo degli ungheresi. Il contributo più originale, ampiamente documentato in mostra, fu quello di László Peri, che in occasione della Grande Esposizione di Berlino del 1923 – in dialogo ravvicinato con la Stanza Proun di El Lisickij dalle pareti attraversate da forme geometriche tridimensionali – presentò un monumentale intervento a parete, con una sequenza discontinua di rilievi monocromi dalle geometrie irregolari. Come notò l’architetto Ludwig Hilberseimer, docente di progettazione al Bauhaus, Peri si era lasciato alle spalle la funzione decorativa dell’arte per rendere lo spazio dinamico e per determinare sulla parete «un campo di forze animate».
Di Moholy-Nagy la mostra ricostruisce gli itinerari berlinesi a partire dal suo approdo in città nel 1920, nel passaggio da una produzione ancora segnata da toni espressionisti alla scoperta dell’astrazione geometrica e del photo-collage grazie a riviste come «Der Dada» e «Mécano», fino all’invito a insegnare al Bauhaus. Per Moholy-Nagy Postdamer Platz era il cuore di una modernità plurisensoriale e sfidante, per adattarsi alla quale era necessario elaborare insieme nuovi metodi pedagogici e nuove pratiche artistiche, fondate sulla proliferazione delle immagini e dei suoni e sulla loro riproducibilità attraverso la fotografia, il film e le costruzioni sceniche del Teatro totale di Erwin Piscator.
Negli anni della Repubblica di Weimar, tuttavia, Berlino non era solo la punta avanzata di una modernità fondata sul progresso tecnologico, ma anche un laboratorio di tensioni sociali, di utopie, di trasgressioni. Citiamo ancora dai ricordi di Sándor Márai, rientrato in Ungheria dopo un grand tour europeo di fine anni venti: «La mattina mi piaceva attraversare il Tiergarten, dove donne vestite da cavallerizza mi venivano incontro a piedi stringendo tra le mani un frustino, che poteva testimoniare, sì, la loro passione sportiva, ma a volte stava a indicare anche passioni di altro genere. Uomini che di giorno dirigevano fabbriche di notte si trasformavano in incantatori di serpenti. Quell’inverno a Berlino fu un unico, continuo ballo in maschera – al crepuscolo brulicava di un esotismo civilizzato e mondano».
Lo «sguardo freddo» – come recita il titolo della mostra ora al Louisiana – con cui furono osservati e con cui a loro volta ora ci osservano i personaggi ritratti da Otto Dix e Christian Schad, e da altri protagonisti meno noti della tendenza della Nuova Oggettività, svela e cristallizza, grazie a un atto di realismo estremo, non la sola apparenza, ma in primo luogo la matrice psicologica delle attitudini e delle espressioni di donne e uomini che Márai ci presenta invece come figuranti di un ballo in maschera. Ogni sezione della mostra accoglie al suo interno uno dei sette capitoli in cui il fotografo August Sander organizzò a metà anni venti la sua epopea fotografica della società tedesca, Ritratti del ventesimo secolo: Il Contadino, L’Artigiano, La Donna, I Corpi sociali, L’Artista, La Grande Città, Gli Ultimi tra gli uomini. Il confronto con l’impulso enciclopedico che guidò il progetto di Sander e con la fotografia, intesa come mezzo di individuazione sia della soggettività sia dell’appartenenza di classe di ogni figura rappresentata, accentua ulteriormente il carattere programmatico e il rapporto inestricabile con il loro tempo dei dipinti neo-oggettivi.
Il termine «Neue Sachlichkeit» fu proposto nel 1925 dal critico Gustav Friedrich Hartlaub in occasione di una mostra alla Kunsthalle di Mannheim, e venne presto accettato come il più adatto a designare l’esigenza di tornare a una figurazione implacabilmente aderente al vero. Le opere in mostra al Louisiana, e la prospettiva critica di cui esse furono portatrici, rappresentano, a fronte delle correnti astratte e costruttiviste, l’altro polo della situazione artistica tedesca di quel decennio; entrambe le posizioni furono segnate dall’esigenza di operare un distacco definitivo dal soggettivismo espressionista, per ricercare forme capaci di rispecchiare la condizione del vivere collettivo nella modernità.
La strada e la piazza, luoghi deputati della dimensione condivisa della quotidianità, sono segnati dalla transitorietà, esattamente – lo suggeriva già negli anni venti, e proprio a Berlino, il sociologo Siegfried Kracauer – come lo è il cinema. La proiezione di Berlino. Sinfonia di una grande città, il film di Walter Ruttmann del 1927 la cui sceneggiatura e i cui tempi furono dettati dai ritmi stessi della vita urbana, è al centro della mostra al Louisiana, ma le sue inquadrature, i suoi tagli, i suoi movimenti di macchina sono attivi in filigrana anche lungo l’intero percorso alla Berlinische Galerie.