Un treno attraversa l’Iran. In una carrozza spunta una scritta che un uomo, nel 1984 aveva inciso per qualcuno. Comincia con questo mistero una raccolta di avventure che un padre e un figlio vivono insieme. Le lezioni di papà di Mohammad Tolouei (Ponte 33, pp. 96, euro 11, traduzione di Giacomo Longhi) è il ritratto a puntate di un uomo burbero e sensibile che sogna l’Europa.

«Periodicamente, gli iraniani immaginano di lasciare il proprio paese – spiega Tolouei che racconta la genesi del suo libro, a metà tra autobiografia e fiction – È successo dopo la rivoluzione, poi dopo l’onda verde del 2009 e ancora adesso, dopo la repressione delle proteste di novembre. In questo sogno sono particolarmente coinvolti i giovani della classe media urbana: una generazione che pensa che prima o poi dovrà trasferirsi altrove. In tutti questi anni ho sempre cercato di resistere all’idea di andarmene. Forse perché penso che, di questo passo, il nostro Paese verrà svuotato di tutte le forze critiche e progressiste. Ma non so se prima o poi dovrò cedere. Mia moglie, che ha anche la nazionalità canadese, vorrebbe che ci trasferissimo. È da un po’ che mi fa questo discorso senza che io le risponda».

Un po’ come il personaggio femminile del suo libro.
Esatto: lei interpreta il mio silenzio come un sì. Ma in fondo al cuore penso che se andassi via smetterei di essere uno scrittore iraniano. Forse diventerei un uomo più fortunato, più affermato e felice, ma non sarei più lo scrittore che vorrei essere, una voce della classe media urbana, di cui condivido le gioie e i dolori.

«Le lezioni di papà» non è un’autobiografia?
Tutti i personaggi, i luoghi e gli eventi storici sono veri. Il resto è inventato. Ho immaginato ex novo il rapporto tra me, mio padre e la mia famiglia per provare a raccontare la società in cui vivo: mi sono ispirato al mockumentary, una sorta di documentario-parodia.

Ma il protagonista si chiama Mohammad…
Perciò viene spontaneo pensare che io abbia voluto parlare del reale rapporto tra me e mio padre. Invece ho cercato di raccontare attraverso una famiglia quello che il ceto medio iraniano ha vissuto in questi quarant’anni. Come ad esempio il desiderio diffuso all’inizio degli anni Ottanta di emigrare. È un fatto vero. Ma il dove e il come sono una storia che cambia a seconda delle famiglie.

Una sintesi della storia del suo Paese?
Diciamo che è un compendio sociale: dalla povertà del dopoguerra, passando per le libertà degli anni della presidenza Khatami, fino al conflitto tra la generazione che ha fatto la rivoluzione e quella dei figli che la rifiuta.

Com’è il rapporto tra genitori e figli, in Iran?
Molto differente rispetto all’Occidente: nella letteratura cristiana, che è fortemente influenzata da quella ebraica, i figli prevaricano sui padri, mentre nell’epica persiana è il contrario. Nel Libro dei Re di Ferdusi l’eroe Rostam a sua insaputa uccide suo figlio Sohrab. La cultura iraniana è patriarcale, i giovani vivono sempre all’ombra dei padri, un’ombra permanente. Il protagonista di Lezioni di papà ne è consapevole e cerca di fare pace con il padre.

Cosa accade dopo questo tentativo di ritrovarsi?
Penso che le riflessioni e lo sforzo di trovare una via di riconciliazione facciano maturare il protagonista, lo portino a scoprire che è possibile accettare suo padre così com’è, difetti compresi

Che tipo è suo padre?
Il vero Ziya è un uomo eccezionale, idealista e ribelle. Una persona che ha sempre voluto vivere secondo gli ideali del ’68. Ma il mondo non sempre è disposto ad accettare questa sua ribellione. Mio padre è una fucina di progetti, assomiglia un po’ a un professore pazzo che sperimenta sempre nuove invenzioni, anche se il più delle volte le idee volano troppo lontano dalla realtà. Da lui ho preso l’immaginazione e la forma mentis da ingegnere. Forse è per questo che sono diventato un scrittore, visto che la scrittura è l’unico luogo dove le idee irrealizzabili prendono forma. Chissà, forse con un altro lavoro sarei diventato pazzo.