Tutto comincia da un vuoto scoperto nella lingua che Mohamed El Khatib parla tutti i giorni, la lingua del Paese dove vive ed è cresciuto, la Francia. Quel vuoto sono le parole con cui raccontare la morte, non in sé ma nella trama sentimentale che la circonda, nelle emozioni che vi si rapprendono intorno specie quando diventa destino imbizzarito, senza spiegazioni. «Mi interessa la dimensione del lutto. In Francia la morte è ancora un tabù specie quando non segue un ’ordine naturale’. Non c’è una parola per definire chi ha perduto un figlio e nemmeno si cerca di inventarla… » spiega.

FORSE  allora tutto comincia da sé stesso, con la morte della madre, nel febbraio del 2002, mentre stava lavorava a una storia basata su una serie di conversazioni con lei; sul letto di ospedale si sente dirle che no, non c’è più niente da fare. Dopo il figlio orfano affronta il suo dolore in un racconto alla prima persona che mescola e-mail, sms, ritagli di giornale, video, messaggi sulla segreteria. È frammentario, scandito dalle emozioni, tra autobiografia, finzione, documentario evoca la vita famigliare, la lingua materna, l’arabo, (la famiglia è di origini maroccchine, ndr), i ricordi, e quel lutto che attraversa. Lo spettacolo si chiama Finir en beauté – in Italia è andato in scena nel 2015 al Festival Drodesera, ndr).

NELL’INTRODUZIONE al testo (edizioni Les Solitaires Intempestifs) El Khatib scrive: «Ho messo insieme del ’materiale di vita’ a mia disposizione tra maggio 2010 e agosto 2013. Non ho sempre chiesto le autorizzazioni necessarie né mi sono posto questioni di limiti, di decenza, di pudore …. Ho raccolto quanto ho potuto e poi l’ho ricostruito, non vi è alcuna suspense, sappiamo che la madre muore e che il figlio è molto triste».

Ma la libertà  narrativa nella ricerca di El Khatib è un principio fondante, è da questa necessità che nel 2006 nasce il collettivo Zirlib in cui si incontrano autori, attori, danzatori, videasti, ricercatori nell’idea comune che la creazione contemporanea è un’esperienza, un gesto socialmente sensibile «L’estetica non si deve svuotare di senso politico» dice El Khatib. E se la vita è la materia tutto il resto può accadere nella distanza della narrazione; non a caso tra i suoi artisti di riferimento c’è un regista come Alain Cavalier che nel gesto del «filmeur» dosa con sapienza e delicatezza il difficile equilibro di finzione e realtà .
C’est la vie – la cui presentazione al Lac di Lugano è stata lo spunto per questa chiacchierata, messa in crisi da un WhatsApp piuttosto altalenante – segue la stessa linea di Finir en beauté ma ne capovolge le posizioni per arrivare, appunto, dove il vuoto della lingua diviene evidenza. «Se un figlio che perde la madre è un orfano manca la parola per definire l’inverso» dice ancora El Khatib. Daniel Kenigsberg ha 61 anni, Fanny Catel, 37. In apparenza non c’è nulla che li unisca tranne che entrambi, tre anni prima, hanno perduto i propri figli, un ragazzo di 25 anni Daniel, una bimba di cinque Fanny. Insieme ai due attori, e al collettivo Zirlib, El Khatib compone un piccolo manuale a uso viventi, riscoprendo nella piéce la parola ebraica, Shakoul, l’orso a cui hanno preso i piccoli. «Non c’è niente di psicanalitico né vi aiuterà a sentirvi più sollevati ma credo che sia importante riflettere sul significato un po’ sospetto del ’lutto’» dice in scena mentre interroga la vita e la sua rappresentazione.

Come ha lavorato con gli interpreti nel delicato passaggio da una dimensione privata a uno spazio pubblico del loro dolore?
Sia in C’est la vie che in Finir en beauté, dove in scena c’ero solo io, l’elemento primario è la distanza che permette di essere il più possibile vicini al reale e al tempo stesso di trasformare la propria esperienza in racconto. La gravità della situazione e di queste testimonianze doveva essere compensata, ed è quanto accade grazie ai due interpreti, alla loro capacità di toccare registri diversi. Per questo non ho mai pensato di lavorare con degli attori non professionisti. Sia Daniel, col suo umorismo nero,che Fanny sanno mantenere una leggerezza che rende il racconto sopportabile, e gli infonde una maggiore potenza senza chiuderlo soltanto nel dolore.

Questo passaggio permette di restituire nelle sue molte sfumature la realtà.

La domanda di partenza è sempre la stessa: cosa vuol dire fare teatro? Si possono recitare delle emozioni, spingere verso limiti nuovi l’attore ma quello che conta, almeno per me, è interrogare a ogni nuovo passaggio le possibilità della rappresentazione. Con i protagonisti di C’est la vie abbiamo molto discusso perché ciò di cui parlo riguarda la loro vita. La scrittura si è confrontata con questa esigenza introducendo elementi fittizi, e tutto quanto poteva restituire il vissuto senza precipitare tra i lati intimi che dovevano rimanere tali.

È questo che l’avvicina a un regista come Alain Cavalier?
La sua lezione è speciale, perché grazie a questa distanza rende gli attori vicini al reale. Ci siamo incontrati in scena parlando del nostro lavoro e del nostro rapporto con gli attori ma di questo incontro non restano tracce, non c’è stata una registrazione.

Quale pensa sia oggi la priorità del teatro?
Credo che debba recuperare la sua forza politica per non essere considerato un luogo per pochi. Per questo vanno sostenuti i progetti artistici legati ai territori, che mettono in relazione le persone, che dialogano e sollecitano diverse visioni del mondo. Le sue imitazioni sono invece molto noiose.