Recepito già da un po’ il ritorno del vinile, che ora campeggia variopinto nei cataloghi delle etichette discografiche – il canonico, vellutato nerofumo, colori fosforici, trasparenze o saturazioni splatter da rasentare a volte velleità pittoriche – e nelle vetrine dei negozi di dischi ripopolati da audiofili in balia dei cavi, dei clamp, degli accrocchi antivibrazione, da cultori dell’oggetto desueto o semplici neofiti a digiuno di analogico; esce ora As The Love Continues, ultimo album dei Mogwai, reperibile in varie edizioni tra cui un cofanetto comprensivo di doppio vinile rosso, libretto, cd e un ep di demo in vinile. Ma se ne contano anche versioni meno sontuose, più essenziali: ad esempio il doppio vinile giallo opaco o quello nero, che messi a confronto con i files in alta qualità (disponibili sulle varie piattaforme specializzate) svelano l’abisso che li separa, un abisso fatto di definizione del suono, trasparenza, ariosità del timbro, come traspirati dalla pelle plasticosa del disco mentre gira sul piatto ed emette tastiere acquee, una chitarra che vi si decanta, smorza raucedini; una filigrana elettronica scintillante insieme ai piatti della batteria.

QUEST’ULTIMO DISCO conferma la statura del gruppo guidato da Stuart Braithwaite, ma anche di tutta la scena indierock, post-rock scozzese, se si pensa al bellissimo As Days Gets Dark degli Arab Strap uscito proprio per la Rock Action Records dei Mogwai e di cui condivide una certa nostalgia per i luoghi, per i vuoti improvvisi, per estasi fulminanti, già svanite. As The Love Continues si pone idealmente in continuità con il precedente Every Country’s Sun, ma di fatto risulta molto più preciso, risolto, proprio nella struttura, nei motivi, nella definizione degli sbalzi esistenti tra la malinconia, l’incantamento, l’epica, fino al canto come di anima robotica, di morticino in Fuck Off Money e all’irruenza portata dalle distorsioni divenute ormai propriamente mogwaiane: folate improvvise che fanno sentire il suono di lamiere, di schegge acuminate, di uno strappo metallico aperto nell’atmosfera.

SPICCANO GLI SPAZI, le orografie: non solo zone emotive, intime, inconsce, ma proprio gli ambienti, gli eventi atmosferici scanditi da una partitura rigogliosa, rifratta; tutta una dimensione visuale intrinseca alla musica dei Mogwai sin dal loro primo singolo, venticinque anni fa, e confluita poi naturalmente nelle molte colonne sonore realizzate di recente, da Atomic di Mark Cousin alle serie televisive dei Revenants e di Zerozerozero di Sollima (per citarne solo alcune).
Si tratta di una visionarietà, contemplazione minuta dei luoghi, degli spazi musicali, che era, pienamente, di Rave Tapes, forse il capolavoro dell’intera discografia dei Mogwai, e ora si perfeziona – rediviva l’elettronica – in brani come Supposedly, We Were Nightmares (incipit di batteria nettato da rullante e gran cassa su cui interviene una pioggia fina, elettrica, un inno alla gioia) e It’s What I Want To Do Mum che trascende nel sinfonico (ma già Midnight Flit era stato trionfo d’archi), nell’estatico, a chiudere un disco come ennesima indefettibile rivendicazione e diversificazione del sogno.