Nel 1994, anno della spettacolare elezione di Nelson Mandela grazie al primo voto democratico del Sudafrica, usciva un romanzo in afrikaans, la lingua degli oppressori bianchi, scritto da un’accademica di formazione filosofica, che aveva già pubblicato poesie: Marlene van Niekerk. Il romanzo si intitolava Triomf, dal nome di un quartiere che negli anni sessanta, a Johannesburg, l’apartheid voleva destinare ai proletari afrikaner dopo aver raso al suolo la multietnica e vibrante Sophiatown applicando il Natives Resettlement Act, la legge del 1954 che dislocò a forza masse di autoctoni dalle loro case per fare posto ai bianchi. Il romanzo, da subito impopolare tra gli afrikaner, offriva un ritratto impietoso di parte della loro comunità.

La traduzione in inglese nel 1999 di un raffinato poeta e critico letterario, Leon de Kock, valse al romanzo non solo premi nazionali e internazionali, ma anche un posto di rilievo nel canone della letteratura del dopo-apartheid. Lodevole dunque, sebbene tardiva, l’impresa di presentare Triomf ai lettori italiani, traducendo il titolo in La famiglia Benade (Neri Pozza, pp. 623, € 22,00) nella versione di Laura Prandino, che già nel 2010, per lo stesso editore, si era misurata con la resa dell’appassionante La via delle donne, anch’esso di Marlene van Niekerk (allora come ora, però, il fatto che la traduzione è dall’inglese anziché dall’afrikaans non è segnalato).

Van Niekerk, classe 1954, conosce bene le discriminazioni di cui il Sudafrica è stato prodigo verso la sua generazione. Bianca, ma fra i pochi dissidenti della minoranza al potere, dichiaratamente lesbica in una cultura patriarcale le cui concezioni di mascolinità e virilità sono a dir poco patologiche, la scrittrice ha saputo rendere poeticamente e senza semplificazioni le forme di emarginazione e di dolore che il Sudafrica pre-1994 ha esacerbato oltre ogni misura.
Se La via delle donne punta al cuore emotivo del conflitto razziale tra meticci e afrikaner, La famiglia Benade mette sotto la sua lente i bianchi poveri, ceto sociale poco frequentato dalla letteratura locale. Un altro scarto fa sì che Van Niekerk li collochi in un ambiente inconsueto per la narrativa afrikaner, più interessata al mito pastorale e, eventualmente, al suo fallimento: il contesto urbano, anzi suburbano, da sempre ambientazione privilegiata nella letteratura dei sudafricani neri o di discendenza inglese. Palinsesto dell’epopea coloniale nel paese, non solo perché nato dove Sophiatown esalava note di jazz mescolate a resistenza, criminalità e tanta letteratura, ma anche perché situato sopra le cavità delle miniere aurifere più prospere del mondo, Triomf si rivelò subito la bidonville monocolore dei derelitti, ennesimo segno del fallimento della società orchestrata dal nazionalismo. Qui si svolge la storia dei fratelli Benade, che ancora ricordano l’infelice migrazione dei genitori dalla campagna verso la città con il miraggio dell’arricchimento.

La loro vicenda permette di far venire a galla le rimozioni dell’apartheid, fra cui l’incapacità di quella classe dirigente di costruire alcunché, anche per coloro che avrebbe voluto avvantaggiare. A Triomf, il cui nome suona come un commento sinistro alla realtà delle cose, non cresce nulla: «le radici faticano a fare presa. Prima devono farsi largo in mezzo a tutte le macerie di Sophiatown. Pop dice che bisogna scavare due metri sotto l’asfalto di Triomf prima di trovare il vecchio terreno coltivabile. In mezzo ci sono solo macerie. Un albero ci mette tre anni a trovare la terra».

A Triomf, i Benade sono implosi in una nuova famiglia – mamma, papà, figlio e zio – generata attraverso un incesto e rimasta unita, nella menzogna, per disperazione, malattie, violenza. Qui, dunque, alla vigilia delle elezioni che porteranno Nelson Mandela alla presidenza, si consuma la miseria quotidiana di questo pezzo di umanità deviata, benché capace di provare sentimenti e di suscitare compassione, dove si vive alla giornata nella sporcizia, tra carcasse di frigoriferi rotti, cani malandati, sigarette, coca cola e cibo in scatola. Quotidiane sono le prevaricazioni in seno alla famiglia e con il vicinato, nell’asfittica solitudine che ha fatto propria, potenziandola, l’ansia del sudafricano bianco, per il quale chiunque è un nemico; prevaricazioni che si ripetono nelle loro formule morbose e ossessive prediligendo tra le vittime Mol, unica donna del romanzo.

Personaggio struggente e complicato, nella follia artefice del suo destino, Mol è schiacciata dalle circostanze e dalla subordinazione implicita nei rigidi ruoli femminili – moglie, madre, sorella, amante – ai quali si piega, recitandoli nel medesimo ambito claustrofobico, e tragicamente parodiandoli. Parodiata è l’idea stessa di famiglia, bastione dell’apartheid e della cultura protestante afrikaner; è questo il microcosmo nel quale, come attesta tanta letteratura del dopo-apartheid, si consumano abomini che fanno da controcanto alle dinamiche malate su cui poggiò per quasi cinquant’anni, largamente impunito sotto gli occhi del mondo, il regime del partito nazionalista. Eppure, in mezzo a tanta violenza, La famiglia Benade riesce a esprimere anche ottimismo: sintomo di quel clima eccezionale, che nei ventitré anni di storia trascorsi tra la sua prima uscita e questa traduzione, si è molto alterato.