A priori la mostra organizzata dalla Tate Modern di Londra poteva risultare pleonastica: un’ulteriore rassegna su Modigliani, dal taglio celebrativo e divulgativo. A posteriori, invece, ha assunto un connotato quasi provvidenziale. Infatti è la prima mostra dedicata al grande artista livornese dopo le traumatiche vicende dell’esposizione genovese, chiusa con tre giorni d’anticipo dato che la Procura aveva disposto il sequestro di ben 21 opere (sulle 70 esposte, non solo di Modigliani) in quanto sospettate di essere false. L’episodio di Genova rischiava di pesare come un vulnus molto grave, anche perché alcune delle tele sequestrate avevano alle spalle una storia espositiva di rilievo: com’è possibile che un autore di questa importanza navighi nell’incertezza dell’autografia rispetto a un numero non piccolo di opere?
La mostra londinese, ancora aperta fino al 2 aprile, arriva quindi provvidenziale perché, nella sua linearità e con la qualità dei prestiti ottenuti, affronta Modigliani fuori dai terreni minati dei contenziosi, stando su una linea prudentemente riepilogativa anche sul piano dei saggi critici. Ed è un buon servizio, perché ci restituisce «Dedo» (così firmava le sue poche e magre lettere) dentro un prezioso percorso stipato di certezze. La curatela è stata affidata a Simonetta Fraquelli, che fa parte dell’advisory board del Modigliani Project e a Nancy Ireson, del team dei curatori della Tate.
Deve essere stata un’esperienza vera sbarcare da Livorno a Parigi nel 1906. Modigliani ci arrivò a gennaio. Trovò una «città totale», dove la vita non si fermava mai, la notte era luminosa quanto il giorno e le donne, come scrisse Umberto Boccioni (lui vi arrivò ad aprile), «sono tutte dipinte… ma dipinte in un modo così meraviglioso, così sapiente, così raffinato da diventare opere d’arte». In quel 1906, mentre Picasso terminava il Ritratto di Gertrude Stein, un capolavoro così pieno di certezze da sembrare dipinto a sprangate, il Salon d’Automne rendeva un grande omaggio a Paul Gauguin. Intanto da Aix giungeva la notizia della morte di Paul Cézanne. Proprio Cézanne sarebbe stato dedicato l’omaggio l’anno successivo, sempre al Salon d’Automne (e Rainer Maria Rilke ne fu visitatore seriale). In questo vortice di novità quel giovane inquieto, all’inizio, si era istintivamente appigliato proprio a Cézanne e alla sua pittura, in cui aveva forse intercettato anche tacche di toscanità. Non è un caso che proprio in Toscana in quegli anni si potesse respirare tanto Cézanne: Egisto Fabbri, uno dei suoi più precoci collezionisti, arrivò ad appendere, nella casa fiorentina di via Cavour, oltre trenta opere del maestro di Aix: chissà se Modigliani ne aveva avuto sentore (oltretutto a Firenze c’era anche un altro importante collezionista di Cézanne, l’americano Charles Loeser).
L’inizio della mostra documenta puntigliosamente proprio questa affiliazione a un postimpressionismo di stampo cézanniano, ma ne annuncia anche il distacco: al centro della sala è stata infatti esposta una tela double face del 1909, che nel verso ha la figura di un violoncellista mentre sul retro riconosciamo un Ritratto di Costantin Brâncusi. Per Modigliani Brâncusi rappresentò un faro nella transizione verso una pulitura radicale delle forme, per arrivare a distillarne un’essenza lineare. Nel ritratto, di proprietà di un collezionista spagnolo, scorgiamo lo scultore, pure lui immigrato, immerso in una nuvola di suggestioni profonde, come se a Modigliani fosse stato concesso di famigliarizzare con i suoi pensieri più segreti. In quello stesso anno Brancusi aveva realizzato il Ritratto della Baronessa R.F., un capolavoro perduto, capace di fare sintesi di modernità e arcaismo, di femminilità e sacralità, di Parigi e antico Egitto. Possiamo solo immaginare quali stimoli siano scattati nella testa di Modigliani davanti a quel Brancusi definitivamente libero da Rodin.
La scultura infatti lo assorbì completamente nel triennio 1911-’13. A Londra viene annunciata da una sala di fondamentali disegni di cariatidi per svelarsi subito dopo con un allestimento a effetto: nove teste scolpite, schierate ordinatamente in file da tre, sistemate su pilastrini bianchi simili a quelli scelti da Modigliani in occasione del Salon d’Automne del 1912. I testimoni raccontano che nel suo studio teneva le sculture ad altezze diverse, quasi volesse evocare un effetto canne d’organo. Alla Tate prevale una lettura in crescendo, che dalle prime teste più dilatate e porose porta all’acuto tutto verticale delle ultime prove: donne-pellicano, con i nasi affilati come di dee contemporanee, con il mento che si rigonfia e si arrotonda quasi fosse un grembo. Sensualità e sacralità con spinte contrapposte finiscono per saldarsi in una sintesi di forme inenarrabili.
C’è da chiedersi cosa abbia spinto Modigliani, toccati questi vertici, a lasciarsi alle spalle in modo così tranchant l’esperienza della scultura. Una risposta viene, forse, dalla sequenza di sale che seguono, dove sfila una selezione straordinaria di ritratti di quella che può essere considerata la community parigina dell’artista. È davanti a questi volti che si percepisce come la pittura per lui abbia un’energia connettiva, anche in senso affettivo, impossibile da trovare nella scultura, soprattutto in quella rastremata per gli influssi del magnetico Brancusi. C’è un senso e un bisogno di fratellanza in ognuna di queste sue opere, in cui la linea dei contorni segnala la dolcezza di un rapporto prima ancora che l’esattezza di una forma. È una linea che sembra ogni volta cucirsi sul profilo dipinto, o meglio cucire il destino del ritrattato a quello del ritrattante, in una relazione di intimità sincera o anche solo sognata. Si respira una istintiva condivisione che a volte si traduce in scelte formali insolite, come nel meraviglioso Ritratto di Diego Rivera, cosparso con la «polvere d’una molotov esistenziale sul punto sempre di esplodere», ebbe a scriverne Giovanni Testori.
È quasi un catalogo del suo personalissimo paradiso quello che sfila in queste sale. Un paradiso struggente che la pittura con il suo portato di purezza, raggiunta proprio grazie al processo di ripulitura compiuto attraverso la scultura, ha il compito di preservare dai precipizi della vita vera, quotidiana. Picasso, Laurens, Max Jacob, Gaston Modot, Juan Gris, Jean Cocteau, Jacques Lipchitz con la moglie Berthe, e poi naturalmente i suoi galleristi, Paul Guillaume e Léopold Zborowski: tutti più che amici, fratelli. Quando questa attrazione affettiva cala, la pittura di Modigliani piega verso un’eleganza che sembra in procinto di slittare nel convenzionale. Il grande salone dei nudi, dove intelligentemente in alcuni casi sono stati accoppiati il ritratto della modella con il quadro da posa, evidenzia, nella ripetitività originata anche dal successo di mercato, quasi una maniera. I corpi nudi hanno sguardi a volte distanti e svuotati, quando invece nei ritratti proprio gli occhi spiccano come fessure dentro cui lasciarsi scivolare per stabilire una più totale confidenza e intimità.
Il finale segnato dalla storia d’amore con Jeanne Hébuterne, dalla paternità e dal lungo soggiorno nel Midi, organizzatogli amorevolmente da Zborowski, vede un addolcimento della pittura di Modigliani. La community è rimasta lontana; insieme a lui, di quel gruppo, c’è solo Soutine. Seguendo Soutine, Modì tenta anche l’avventura del paesaggio e sceglie modelli per lo più anonimi per i suoi ritratti. Sfilano ragazzi, ragazze, gente di popolo, tutti cooptati, o meglio accolti, dentro il sogno di quel suo paradiso pittorico che si è fatto quasi più ospitale e più caldo. Di pochi si conoscono i dati, anche se le ricerche effettuate in occasione della mostra hanno permesso di dare il nome ad alcuni: il ragazzo con i pantaloncini del ritratto che viene da Dallas sarebbe Nanic, il figlio di Anders Osterlind, un artista svedese che aveva casa a Cagnes. In quello scalare di gialli, di aranci e di rosa Modigliani tocca un vertice di calma e tenerezza. Non sapessimo delle continue derive della sua vita e di ciò che lo attendeva di lì a pochi mesi, verrebbe anche da pronunciare la parola-anelito da lui sempre inseguita nella pittura: felicità.