Ho fatto parecchie orecchie alle pagine delle Memorie di Ettore Modigliani (1873-1947) pubblicate due anni fa da Skira. Gli eventi e i personaggi descritti sono molti, e interessanti. Tra essi, malgrado manchi un indice dei nomi – che sarebbe stato utilissimo –, ritrovo facilmente la cronaca dell’incontro di Modigliani con Galeazzo Ciano, all’Isola Bella nel 1935.
In quell’occasione il genero di Mussolini espresse al soprintendente l’idea di far transitare le Belle Arti italiane dal Ministero dell’Educazione Nazionale al suo, cioè quello della Stampa e Propaganda. Perché «il nostro patrimonio artistico nazionale è, si, un grande elemento di cultura, ma ha una funzione più che altro statica, ossia di pura conservazione». «Non è in altri termini ‘sfruttato’» per «valorizzare tutti gli aspetti della vita italiana».
Modigliani era stato allontanato proprio in quei giorni dai suoi incarichi di direttore di Brera e soprintendente della Lombardia: prima spostato nella meno centrale Soprintendenza dell’Aquila per le sue idee antifasciste, poi, tre anni dopo, definitivamente estromesso per l’entrata in vigore delle leggi razziali. Nelle sale del palazzo Borromeo dell’Isola Bella, tra «piante rare per ogni dove» e «centinaia di dipinti antichi», Ciano cercò un alleato nel soprintendente già piegato dalla prepotenza del regime, ma ottenne l’esatto opposto. Con onestà e integrità Modigliani si smarcò da quelle idee per lui distruttive e superficiali. Il ministro, «abituato a vedere molti sorrisi e sperticati elogi, evidentemente mal tollerava obbiezioni», e troncò il discorso, scocciato.
È un racconto che colpisce. Come diversi altri brani delle Memorie, affronta l’intreccio tra potere e cultura nel complesso delle difficoltà legate alla gestione del patrimonio culturale. Problemi che c’erano allora e continuano a presentarsi oggi. Quante volte, per esempio, lo stesso concetto espresso da Ciano si è sentito nei discorsi dell’attuale ministro della cultura, come da molti suoi predecessori? Se ne potrebbe fare un’antologia, almeno dal «petrolio dell’Italia» di Ronchey in qua.
Per scalfire quella «funzione statica» delle soprintendenze e del ministero sostenuta – lo si riteneva allora come ora – da vecchi e polverosi tabù, oggi si utilizzano mezzi diversi da quelli immaginati dal gerarca fascista, cadendo ugualmente nel grottesco: bastino, per citarne un paio, i giovanilismi dal sapore tanto provinciale come la «Netflix della cultura italiana» e «VeryBello». Perché – parola di ministro – il patrimonio culturale diventi «risorsa» e «una carta formidabile per la competitività italiana». Insomma, quasi la stessa solfa di Ciano. Di fronte a questo, ripercorrere la carriera di un fervente funzionario pubblico che non dava sconti e che misurava i limiti della propria esistenza sulla propria missione, è tanto più salutare: le osservazione poste da Modigliani a Ciano varrebbero anche per la politica attuale.
Oggi gli equilibri tra amministrazione e vigilanza, pubblico e privato, nella gestione dei beni culturali, sono fragili quanto allora e verosimilmente più complessi. Quante polemiche, scontri, vendette e risentimenti nei tentativi di Modigliani di coinvolgere i privati in acquisti di quadri, nei restauri o nelle ricostruzioni post-belliche; o, di contro, quante battaglie per proteggere l’interesse pubblico da quello privato. I risultati positivi, come le occasioni perse, non mancarono, e qualcosa possono insegnare ancora oggi. Si analizzano in Ettore Modigliani soprintendente Dal primo Novecento alle leggi razziali, a cura di Emanuele Pellegrini (Skira, pp. 271, euro 25,00).
Nel libro, che con le Memorie forma una specie di dittico, sono raccolti interventi sul tema di diversi studiosi. Sono presenti anche affondi più generali, come un primo sondaggio sulle conseguenze delle leggi razziali sugli storici dell’arte (e quindi sulla disciplina), e molte informazioni che arricchiscono la storia del restauro e della tutela.
Durante la Grande Guerra Modigliani si era distinto nella messa in sicurezza delle opere d’arte della sua regione, per la propria dedizione a Brera e, infine, come delegato per le restituzioni artistiche all’Italia nella Conferenza di Parigi. Ma la gestione di una delle pinacoteca più importanti del Paese in un momento tanto complesso, il suo impegno come soprintendente, come studioso nella ricerca e nella divulgazione storico-artistica, le benemerenze, le medaglie e i complimenti non contarono nulla quando si perse la bussola morale. A quel punto non ebbe solamente i musei e la concezione stessa di patrimonio culturale da difendere, ma anche il proprio diritto all’esistenza.
Lo studio della carriera di questo funzionario non chiarisce solo alcune questioni braidensi, è come un carotaggio operato nelle stratificazioni di un’epoca difficilissima dove le dicotomie buoni-cattivi, fascisti-antifascisti, non spiegano tutto. È infatti inevitabile pensare a chi ha pagato lo scotto di averne seguito la traiettoria morale, come Fernanda Wittgens, ma anche a chi non ha subito contraccolpi evidenti e ha taciuto sui soprusi, quindi anche alla terna Longhi-Argan-Brandi. Queste tre personalità decidono di rimanere vicine a un potere politico che pure disprezzano, perché tra quei «gerarchi stupidi e ignoranti» ci fosse «un nucleo di persone coscienti che non prendessero decisioni a vanvera», dirà Brandi. È inutile ipotizzare come sarebbe andata se avessero agito diversamente, ma è vero che quella scelta, funzionale anche se apparentemente meno coraggiosa, deve aver posto dei dubbi, lasciato delle lacerazioni. Per i silenzi e dopo i disastri, è infatti il tempo di «un interminabile esame di coscienza per noi storici dell’arte», scriverà Longhi a Giuliano Briganti alla fine del 1944: «noi, gli anziani soprattutto, siamo responsabili di tante ferite al torso dell’arte italiana, almeno per non aver lavorato più duramente, e per non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere». Valori artistici, ma da leggersi anche come valori di civiltà.