Lo storico dell’arte si deve confrontare, nella pratica della sua disciplina, con un sogno impossibile: quello di essere nel luogo e nel momento in cui le opere oggetto dei propri studi vengono generate nella mente e dalla mano dell’artista. Sogno impossibile che costringe la disciplina a esercizi affascinanti che possono variare dalla ricerca di tutti gli indizi, allo scandaglio del documento primo che è l’opera, allo sguardo al contesto, sino all’ekphrasis, quando la scrittura diventa lo strumento per cercare di aderire alla pelle stessa dell’opera. Comunque sia, lo storico dell’arte si porta sempre addosso lo stigma di questa sconfitta preventiva: perciò la pervicacia con cui continua nel suo tentativo, quando questo tentativo non si riduca a mera conferma di teoremi, è un esercizio intellettuale tra i più affascinanti e anche tra i più liberanti che ci siano.

Nella sua Filologia del ’900 Modigliani, Sironi, Morandi, Martini (Electa, pp. 266, euro 30,00), Flavio Fergonzi di questi «esercizi» ne propone ben quattro, senza rapporti diretti tra di loro anche se quasi tutti relativi a una stessa stagione del Novecento italiano, quella che ruota intorno agli anni dieci e anni venti. Ma come sottolinea Fergonzi nell’introduzione, a far da filo conduttore dei quattro saggi «non sono tanto l’argomento o l’ambito cronologico quanto il metodo: il titolo ne dà conto». Nel titolo si parla di «filologia», e la filologia è proprio l’arma a cui Fergonzi ricorre per tentare di chiudere pazientemente quella distanza che separa lo storico dall’oggetto della sua indagine.

La filologia innanzitutto, dice sempre Fergonzi, è «la ricerca più capillare possibile delle testimonianze concrete e la loro analisi attenta». È in questo modo che lo storico, non potendo entrare nel sancta sanctorum dell’invenzione artistica, cerca di presidiare almeno lo sguardo dell’artista stesso: indagando su ciò che quel suo sguardo poteva aver intercettato e che quindi in qualche modo poteva aver influito sul processo creativo. Naturalmente è fondamentale l’intelligenza con cui si sceglie il campo d’indagine e la determinazione con cui si setacciano e selezionano gli indizi. Il fatto che il campo d’indagine sia forzatamente ristretto, non è affatto un limite: perché puntando l’obiettivo su un problema circoscritto, ci si può trovare ribaltati su un orizzonte sorprendentemente più vasto e più profondo.

È quanto capita, ad esempio, nel saggio dedicato alla scultura di Modigliani, che è una rielaborazione di quanto scritto per la straordinaria mostra del 2010 al Mart di Rovereto. Fergonzi dichiara subito il suo obiettivo: «proverò a interrogarmi sulle sculture di Amedeo Modigliani. Lo farò da un’angolazione particolare: fermandomi sul contributo che, per la conoscenza di queste opere, può venire dal cospicuo corpus di disegni a esse riferibili». Un lavoro filologico, quindi, per arrivare non solo a mettere ordine, ma anche a cercare di capire perché Modigliani, all’inizio del secondo decennio del secolo, operi questo passaggio «repentino e inatteso» alla scultura. Fergonzi in questo caso s’appoggia a molte esperienze di contesto, al rapporto con Brancusi e con Maurice Drouard, all’influsso di Jacques Lipchitz, Jacob Epstein e di Ossip Zadkine, che in quegli anni a Parigi avevano rilanciato con energia un’idea di scultura post-rodiniana. Ma c’era anche Picasso che, come scrive Fergonzi, era stato «il primo ad aver rivoluzionato la rappresentazione del corpo attraverso il riferimento non al modello vivo ma alla fissità incombente della scultura». Per Modigliani la scultura diventa la strada per liberararsi dal «realismo postimpressionista», come dimostra la distanza stilistica che separa i due Studi per un ritratto a Paul Alexandre, il primo del 1909, che è ancora un «ritratto d’anima», e il secondo del 1913, che è invece stato liberato da tutti i nessi spaziali e che emerge dal foglio per semplice «affioramento di linee».

Questo confronto serrato con il «ragionamento plastico» di Modigliani attraverso l’analisi dei disegni è la strada che permette a Fergonzi di capire il perché, di ritorno dal suo ultimo viaggio in Italia nel 1913, l’artista archivi l’esperienza della scultura. Le ragioni di salute, generalmente avanzate, certamente contano, ma non sono le sole: per Modigliani, già malato di tubercolosi, respirare la polvere prodotta dalla lavorazione della pietra era pericoloso. Tuttavia Fergonzi coglie nell’esplorazione di contesto di quel 1913 ragioni ancor più decisive. La «moda» di attingere a temi arcaici per tradurli in stili moderni, a cui aveva aderito anche il Modigliani scultore, doveva fare i conti con la svolta radicale di Brancusi verso «una pura astrazione volumetrica, di fatto fine a se stessa». E Modigliani non se l’era sentita di immettersi su quella strada. Ma il 1913 è anche l’anno della mostra della scultura futurista di Boccioni a Parigi, aperta a giugno alla Galerie La Boëtie. La compenetrazione tra le opere e lo spazio, la torsione plastica e dinamica erano principi che sentiva estranei: lui all’opposto aveva lavorato in direzione di una ieraticità che consegnasse le opere a uno spazio puro e tutto loro, sino al sogno impossibile di un’opera totale. Eppure questo apparente scacco diventa occasione di un rilancio: Modigliani lavora su disegni e acquerelli con soggetto le Cariatidi, «forme più pure… armonie lineari nella direzione della rarefazione plastica e del piatto arabesco». In apparenza le finalizzazioni di questa riflessione su carta avrebbero dovuto essere nuove sculture; in realtà sfoceranno con molta naturalezza nei grandi nudi del 1917.
Negli altri «esercizi» del libro, Fergonzi mette in sequenza l’opera di Sironi in quell’anno cruciale che fu il 1919, e affronta il tema dei prestiti visivi di Arturo Martini, ad esempio scoprendo nella Deposizione del Duomo di Tivoli la fonte per il celebre Figliol Prodigo del 1927. Anche in questo caso la scoperta non è fine a se stessa ma aiuta a comprendere il problema che l’artista in quel momento si trovava ad affrontare: nel passaggio dai bassorilievi a una scultura a tutto tondo Martini mutuò la soluzione da quel gruppo ligneo duecentesco, che aveva un punto di vista obbligato. Il «carattere di incerta collocazione reciproca dei corpi» di Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo regola la posizione dei due protagonisti del Figliol Prodigo.

Ma a proposito di prestiti visivi Fergonzi dà il meglio di sé nel saggio dedicato a Giorgio Morandi. In questo caso affronta un nodo che per primo Francesco Arcangeli, nel suo bellissimo e sfortunato libro sul grande maestro bolognese, aveva colto: l’occhio di Morandi era un occhio prensile, che non si faceva sfuggire nulla di ciò che potesse essere utile e funzionale alla messa a fuoco del suo lavoro. In realtà l’operazione che Morandi fa sul ristretto manipolo di artisti che calamitarono la sua attenzione è sempre un’operazione di riduzione al grado zero del testo pittorico con cui si confrontava. Non ci sono mai prestiti stilistici perché, come scrisse giustamente Eugenio Riccomini, Morandi guarda alle opere che lo interessano «come se fossero nature morte». Fergonzi come un segugio mette in fila tutte le fonti visive, molte documentate, altre altamente probabili, che in quegli anni erano passate sotto lo sguardo di Morandi. Il saggio si sviluppa così in modo molto logico e anche accattivante attraverso le avventure visive del più stanziale tra i grandi artisti del Novecento (Morandi non fu mai a Parigi, andò due volte in Svizzera, si allontanò molto raramente dalla direttrice via Fondazza-Grizzane). Le fonti sono sempre riproduzioni in bianco e nero, generalmente molto piccole, ed è sorprendente scoprire come l’occhio di Morandi riuscisse a intercettare motivi e soluzioni spesso quasi invisibili e spesso anche insignificanti. Esemplare l’episodio del prestito visivo da un capolavoro di Cézanne, La maison lézardée del 1892, che era stato riprodotto in una monografia uscita nel 1927 e che Morandi riprese in un Paesaggio dello stesso anno. Ma se intercetta l’idea del punto di vista fortemente ribassato grazie al quale la casa si staglia contro il cielo, rinnega poi la ragione prima di quel dispositivo messo in atto da Cézanne: la possibilità di inserire in basso e in primo piano un «cuneo spaziale» con le rocce che finiscono con il ribaltare drammaticamente la casa verso lo spettatore. Invece Morandi opta per la soluzione opposta a lui congeniale, appiattendo i piani e rinnegando alla radice la sua fonte.

Una curiosità finale: con la sua puntigliosità filologica Fergonzi ha scoperto che la celebre citazione proustiana di Roberto Longhi tratta da Le Temps Retrouvé e continuamente riferita a Morandi, contiene in realtà una significativa integrazione di Longhi stesso. «Il grado di penetrazione dell’impressione visiva» è infatti testo longhiano, innestato con geniale nonchalance nella frase di Proust.