Tra domenica 25 e lunedì 26 giugno si è svolta negli Stati uniti la prima visita ufficiale del primo ministro Narendra Modi dall’insediamento di Donald Trump alla Casa bianca. Un evento di particolare rilevanza per l’India che, proprio col governo Modi, si era sbilanciata in una palese ricerca di riconoscimento internazionale da parte di Washington, in epoca obamiana.

SEMBRA UN SECOLO FA, ma in India è ancora molto vivo il ricordo di quella presunta «bromance» – più di una semplice «amicizia», ma senza connotazione sessuale – che avrebbe legato Modi ed Obama e, di conseguenza, sancito un nuovo orizzonte di cooperazione sull’asse New Delhi – Washington, distaccandosi dalla tradizionale diffidenza riservata dall’India ex socialista agli Stati uniti.

Col «Pivot to Asia» obamiano finito in soffitta in favore di rapporti altalenanti ma di certo non ostili tra Usa e Cina, dalle parti della diplomazia indiana la speranza di primo incontro almeno fruttuoso tra Modi e l’imprevedibile Trump era parecchia. Anche solo una cordiale presentazione per rompere il ghiaccio sarebbe bastata. Ieri, con Narendra Modi in volo per l’Europa al termine della due giorni americana, la stampa nazionale si è ritrovata a raccontare un meeting tutto sommato andato ben oltre le aspettative, soprattutto in ottica di peso geopolitico.

L’AMMINISTRAZIONE statunitense ha infatti accordato all’India due gesti assolutamente inusuali, su cui New Delhi conta di costruire una strategia che allontani sempre più Washington da Islamabad, storico alleato statunitense in Asia Meridionale.

Alla vigilia del meeting, per cominciare, gli Usa hanno designato Sayeed Salahuddin, leader del gruppo separatista kashmiro Hizb-ul-Mujahideen, come «special designated global terrorist», mettendo in chiaro un primo sbilanciamento a favore di New Delhi in un conflitto a intensità variabile che dal 1947 infiamma i rapporti tra India e Pakistan e tra governo centrale indiano e sigle indipendentiste kashmire di varia entità . Inoltre, un comunicato congiunto delle delegazioni indiana e statunitense diramato a fine meeting ha denunciato il terrorismo a cavallo del confine indo-pachistano, appellandosi al Pakistan perché assicuri alla giustizia «i responsabili del 26/11 a Mumbai, di Pathankot e altri attacchi terroristici perpetrati da gruppi basati in Pakistan». Un’accusa frontale che raramente gli Stati uniti si sono spinti a fare, tenendo sempre un occhio di riguardo nella delicata gestione dei rapporti con Islamabad, funzionali anche all’agenda afghana.

NELLA CONFERENZA STAMPA congiunta Trump si è detto un «sincero amico» dell’India e ha riaffermato l’impegno di entrambe le democrazie «colpite dal male del terrorismo» nel «distruggere le organizzazioni terroristiche e l’ideologia radicale che le guida». Modi, in una velata stoccata a Islamabad, ha fatto eco alle parole di Trump aggiungendo che «combattere il terrorismo e rimuovere i rifugi, i santuari e le case sicure dei terroristi sarà una parte importante della nostra cooperazione».

Per quanto riguarda il commercio, Trump si è detto felice dei 205 aerei che il vettore indiano Spicejet ha ordinato a Boeing, per una commessa di 22 miliardi di dollari, mentre entrambi i leader hanno confidato che le imminenti riforme fiscali in India – entreranno in vigore il primo luglio – contribuiranno a sbloccare «immense opportunità economiche».

TRA I TEMI SCHIVATI durante il meeting figura i visti di lavoro H1B accordati nel settore dell’Information Technology, grazie ai quali le principali compagnie indiane attive negli Usa potevano assumere a salari inferiori alla media statunitense figure professionali invitate dall’India: Trump ha tagliato il tetto massimo dei visti, l’India ha protestato, ma non se n’è più riparlato.
E, senza sorpresa, nessuna menzione dell’accordo di Parigi, dal quale Trump ha fatto uscire gli Usa mentre l’India ne è uno tra i più strenui sostenitori, a capo di una rivoluzione dell’energia solare che, di riflesso, fa concorrenza all’industria del carbone statunitense.