Un ottimo antidoto alla corrente massificazione culturale consiste nel proporre testi in grado di ripercorrere momenti significativi della storia culturale del Novecento. Non si tratta di un’operazione nostalgia, da biechi laudatores temporis acti: al contrario, rinnovare la memoria storica, ponendola dialetticamente in confronto con l’oggi, costituisce una delle poche soluzioni concretamente percorribili per avviare un possibile recupero di solidità culturale all’interno di un panorama tristemente desolante. Ciò vale anche per gli studi classici, per statuto più immuni da certe derive di banale conformismo, ma da qualche tempo attraversati da più che motivate preoccupazioni, legate in modo particolare alla loro sopravvivenza dignitosa nel sistema scolastico e formativo che si sta delineando.
Con particolare piacere si saluta, pertanto, la pubblicazione, in traduzione italiana e corredata da penetranti saggi introduttivi, di lavori particolarmente significativi della filologia classica novecentesca, che hanno saputo incidere in profondità, magari non nell’immediato, ma dopo una fase più o meno lunga di rimeditazione critica, su autori o momenti culturali rilevanti della letteratura greco-latina. È il caso di L’epos di Catullo su Peleo del latinista tedesco Friedrich Klingner (1894-1968), da poco disponibile quale terzo volume della collana «Dicti studiosus. Classici della filologia in traduzione», diretta dai latinisti triestini Lucio Cristante e Marco Fernandelli e pubblicata dalle Edizioni dell’Università di Trieste (Eut), nell’ottima traduzione di Chiara Maria Bieker e con un denso e ricchissimo saggio introduttivo dello stesso Fernandelli.
Amburgo, Lipsia, Monaco
Quest’ultimo traccia il profilo culturale dello studioso tedesco (fu ordinario ad Amburgo, a Lipsia e a Monaco, dove concluse la carriera), che ha attraversato da protagonista una delle stagioni più fertili e complesse della filologia classica europea. Lo storicismo integrale, che aveva trovato in Wilamowitz il suo paladino più autorevole e rappresentativo, entra in crisi dopo la disfatta tedesca nella Grande Guerra e si deve misurare con il riaffiorare di una corrente neoumanistica, talora venata di tracce estetizzanti (riconducibili all’influsso esercitato dalla poetica di Stefan George), che troverà nella Paideia di Werner Jaeger – peraltro formatosi alla scuola di Wilamowitz, di cui fu discepolo prediletto, fino alla rottura insanabile – il suo manifesto più emblematico.
Storicismo e neoumanesimo sono, come nota bene Fernandelli, fenomeni che nella cultura tedesca si sono sempre dialetticamente confrontati a partire almeno dalla diffusione del Neoclassicismo, senza però approdare a un reale tentativo di sintesi, anche negli studi di antichistica in cui le contrapposizioni restano forti e marcate. Klingner, in dialogo con altri studiosi dalla medesima affinità culturale, tra i quali spiccano il grecista Karl Reinhardt, grande interprete di Omero, Platone, Posidonio, e Richard Heinze, suo predecessore nella cattedra di Lipsia, ha saputo avviare un proprio percorso di riflessione autonomo e originale, ponendo al centro della sua attenzione la relazione tra l’opera letteraria in quanto tale e il suo reificarsi nel tempo mediante la particolarità della coscienza e dell’esperienza dell’autore. Una simile interdipendenza viene, tuttavia, indagata mediante gli strumenti della filologia, con speciale attenzione alla lingua e allo stile, che rimangono centrali nelle indagini di Klingner, con un’ammirevole coerenza critica confermata non solo da questo studio catulliano, ma anche da altri importanti lavori, dall’edizione di Orazio del 1939 fino ai monumentali contributi su Virgilio, degli ultimi anni della sua vita (Virgil: Bucolica, Georgica, Aeneis, Artemis Verlag 1967). Questa sostanziale autonomia rispetto alle posizioni in campo, come Fernandelli ha dimostrato in modo convincente, permette allo studioso di evitare il rischio di scivolare in un certo impressionismo critico che si riscontra talora in Jaeger e nei suoi epigoni. Ma soprattutto insegna all’antichista di oggi, in un revanchismo abbastanza stucchevole di cosiddetti nuovi umanesimi dai connotati irrazionali e reazionari, di ricordare l’imprescindibile necessità di un solido ancoraggio critico e filologico per ogni ricerca che aspiri a ricostruire fenomeni «totalizzanti», come la storia del genere epico e le sue varie declinazioni, dalla letteratura ellenistica a quella latina.
Il saggio di Klingner, pubblicato per la prima volta nel 1956 e poi riproposto in seconda edizione nel ’64, segna un punto fermo nella storia della critica catulliana. Non erano pochi, infatti, gli studiosi ancora legati al cliché di Catullo poeta delle nugae, cantore appassionato del suo amore per Clodia fuori dagli schemi reazionari della tradizione (il mos maiorum), così come non era ancora tramontato il vecchio pregiudizio tardo ottocentesco, ampiamente diffuso nella filologia tedesca, della superiorità greca rispetto alla cultura letteraria latina. In questo contesto la sezione dei carmina docta (come per convenzione si definiscono gli otto componimenti, dal 61 al 68, del Libro catulliano, a metà tra le polimetriche nugae e gli epigrammata) ha finalmente trovato in Klingner il suo studioso per l’epoca più attento e originale, come dimostra questo saggio incentrato sul Carme 64, il ben noto epillio dedicato alle nozze di Peleo e Teti, al cui interno Catullo inserisce, con tecnica audace e innovativa, la vicenda di Arianna abbandonata.
L’esponente neoterico
L’epillio («piccolo epos») è una delle più riuscite sperimentazioni della letteratura ellenistica, entrata poi a Roma grazie alla poesia «neoterica» di cui Catullo fu l’esponente di spicco. La tematica mitologica, che associa l’epillio all’epica maggiore, si piega e si contamina con elementi di generi diversi, come l’elegia amorosa e, nel caso del Carme 64, anche all’epitalamio – il canto nuziale qui intonato dalle Parche – e alla poesia «ecfrastica», con l’ampia descrizione del ricamo della coperta del letto nuziale che ha la funzione di introdurre la storia di Arianna, prima sedotta e abbandonata da Teseo, poi sposata da Bacco. Il grande merito di Klingner è quello di aver saputo valutare l’insieme del testo catulliano, salvaguardando in primo luogo la centralità dell’autore e il forte legame, sempre mediato dallo stile e dalla lingua, tra struttura poetica e mondo interiore. Lo studioso rivendica con decisione la forte dimensione lirica dell’epos catulliano, ricercandone strenuamente l’unità interna, messa fortemente in discussione da altri studiosi per la compresenza di elementi reputati tra loro incompatibili. Klingner non nega la forza di suggestione della varietas, tipica del resto della poesia ellenistico-neoterica, che emerge dalla lettura del testo; ma è attento a cogliere la totalità organica del carme, valorizzando l’apporto di modernità che Catullo, con la sua personalità artistica, ha contribuito a fornire allo sviluppo del genere epico con sensibilità tutta romana (e che trova proprio nella liricizzazione la sua espressione migliore).
Questo saggio, pubblicato negli anni in cui iniziavano i primi fermenti del grande rinnovamento della critica letteraria anche grazie all’apporto dello strutturalismo e delle scienze umane, mantiene intatto il suo interesse oggi. Le forme rimangono non a dispetto dell’autore, in una sorta di autonomia virtuale e «metaletteraria», ma grazie alla sensibilità e alla personalità dell’autore stesso. Klingner è stato particolarmente abile nell’evitare letture impressionistiche e soprattutto nel salvaguardare il nesso tra forme e storia, in nome di uno storicismo che ha cercato con coraggio un confronto dialettico col miglior umanesimo: quello saldamente legato alla filologia.