Le parole di Nicola Zingaretti, all’ex Dogana di Roma, vengono ascoltate con attenzione dai cronisti. Il presidente del Lazio è un papabile per il congresso Pd che potrebbe aprirsi presto. Lui lo sa, e cerca di chiarire, scherzandoci su: «Questa assemblea non è un trampolino di lancio per altro. Quando qualcuno si candiderà se ne accorgeranno tutti, non ho bisogno di nascondermi». Ieri infatti ha convocato la sua «squadra» per parlare della sua regione, per applaudire alle vittorie di Ciaccheri e Caudo alle primarie dei municipi ottavo e terzo: due creature del «modello Lazio» e vicine alla lista Civica in cui è confluita molta sinistra ex radicale.
Ma Zingaretti lancia un messaggio all’indirizzo del Nazareno. In vista delle elezioni «è urgente aprire un cantiere nuovo per un centrosinistra largo», nell’unità «sta la nostra intelligenza politica». Il presidente critica il Pd ridotto a «pura gestione di potere» in cui «l’io prevale sul noi». Renzi non è mai nominato, ma è il convitato di pietra.

Non va così invece a Milano, all’Auditorium di Radiopopolare, dove parla un altro non renziano di successo, il sindaco Beppe Sala. Più esplicito del collega romano: «C’è Renzi da una parte e tutti gli altri dall’altra», dice senza mezzi termini. Anche il sindaco ha un modello da proporre, quello della sua città: «una proposta diversa da quella che ci ha portato al 18 per cento». Non è iscritto Pd ma lancia l’idea di «dieci personalità» che prendano in mano il partito per portarlo nel post-Renzi. Un’idea che circola ormai: dal ministro Calenda all’ex segretario Veltroni.

Per oggi si aspettano le parole di Paolo Gentiloni. Il premier, dopo un lungo silenzio – e due mesi in cui si è reso trasparente – oggi sarà a Che tempo che fa, il programma di Fabio Fazio su Raiuno ormai con i galloni della ’terza camera’ della sinistra italiana. A una settimana dall’intervista che ha segnato il ritorno in campo di Renzi, stavolta tocca alla personalità che gli anti-renziani indicano come capo della coalizione in caso di voto. Al Nazareno circola un sondaggio secondo cui tra il voto a luglio e la conferma di Gentiloni per il tempo necessario a fare una legge elettorale, il 51% degli intervistati sceglierebbe Gentiloni.

Fra il premier e l’ex segretario da tempo ormai è calata una cortina di gelo. I governisti sperano in una sua esplicita parola di appoggio a Maurizio Martina. Che ormai però è un reggente a tempo, destinato a uscire di scena sin dall’assemblea nazionale, che dovrebbe convocare il congresso. Ma su questo argomento il Pd ha tirato il freno: «C’è tempo», spiegano. Ai renziani serve tempo per convincere Delrio a correre.

Ma anche ai non renziani serve tempo. Zingaretti si guarda bene dall’apparire come il candidato delle minoranze, stigma che lo porterebbe dritto alla sconfitta. In ogni caso anche lui ha bisogno di tempo per correre da segretario: la rielezione nel Lazio è troppo recente, le promesse fatte gli elettori troppo ambiziose.
Tutto però dipende dai tempi dello «stallo». Al Nazareno nessuno crede al voto anticipato, ma ormai è più un esorcismo che una convinzione politica.
Domani il vertice fra il reggente e Delrio, Orfini e Guerini per concordare la linea da portare al Colle. L’ultima volta, all’uscita dell’incontro, le parole di Martina hanno scatenato l’ira di Renzi. Stavolta i margini sono più stretti: a Mattarella i Dem daranno la disponibilità a valutare un governo di tregua, non politico, con un candidato terzo. Ma se M5S se ne tirasse fuori? Evitare il voto per quel che resta del Pd è condizione di sopravvivenza. Non solo per Renzi e i suoi.