Il prossimo 5 dicembre l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna approverà la nuova legge urbanistica regionale. La legge è un ferale attacco alla pianificazione e di fatto annienta l’urbanistica comunale sottraendo ai Comuni la potestà normativa sulle trasformazioni edilizie e territoriali, contro il dettato costituzionale.

La proposta di legge (n. 4223), animata da spirito deregolatorio di matrice neocapitalistica, riprende i temi della mai varata legge Lupi (2005). Temi che la propaganda istituzionale ha celato dietro slogan tanto accattivanti – limitazione del consumo di suolo, rigenerazione urbana etc. – quanto ambigui.

Nella PdL, gli «accordi operativi» (art. 38) preludono a un massiccio ricorso alla contrattazione pubblico-privato, nel vuoto pianificatorio. La «rigenerazione urbana» (capo II) nasconde un quadro di demolizioni, anche nei centri storici, e di dislocamento dei residenti. Gli standard urbanistici, che garantivano ai cittadini italiani l’accesso universale ai servizi e al verde urbano, si mutano in «standard differenziati». Svaniscono i limiti di densità edilizia e di altezza degli edifici. Tecnica urbanistica a parte, nella presente lettera vogliamo sollevare la questione politica.

La proposta di legge si fonda su una struttura logico-interpretativa di stampo economicista che assimila la città a una public company (così i funzionari regionali al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, organizzato da Altra Emilia Romagna, Art. 1-MDP e SI, il 15 novembre scorso). In una città considerata una Spa ad azionariato diffuso, dove i cittadini – come è stato detto nella medesima sede – sono i «proprietari della città», la rigenerazione urbana, deprivata di carattere progressivo in senso sociale, diventa uno strumento di «convincimento» dei cittadini a «investire sul patrimonio di cui sono proprietari» (ibidem). La rigenerazione diventa core business di un nuovo ciclo edilizio. La casa passa da “diritto” a oggetto di investimento, ed è posta sullo stesso piano di merci e titoli finanziari.

Alla città intesa come public company e alla casa (di proprietà) come asset, serve un’urbanistica ridotta a mera disciplina di negoziazione. E perciò la Regione che fu il faro dell’urbanistica italiana (e, per certi versi, europea) dichiara oggi guerra al Piano. È la “Strategia” che «dà il comando».

Chi poi sia investito del ruolo di stratega è questione che non trova risposta nell’articolato, se non nell’augurale espressione di un intento, formulato tra i principi generali: «La presente legge valorizza le capacità negoziali dei Comuni» (art. 1). È certo invece che Comuni e proprietari si eserciteranno in tavoli di “co-decisione” poco regolati, poco democratici e punto partecipati.

La co-decisione supplisce alla vacanza del Piano: il Comune infatti, secondo la legge, «non può» quantificare le dimensioni volumetriche delle trasformazioni, né localizzarle (PdL 4223, art. 33). «Non può» redigere tavole, né disporre una disciplina di dettaglio. In altre parole, non deve pianificare. Al tavolo di negoziazione non resterà da negoziare altro che le generose premialità previste dalla legge: copiosi incentivi fiscali e volumetrici (art. 8), per gli interventi di riuso, addensamento e rigenerazione, che graveranno sulle già grame finanze comunali.

Lo sbarramento del 3% di suolo extraurbano nuovamente consumabile si inserisce in tale ratio, ristretta tra produttività e profitability: in tempi di crisi, i 250 kmq di previsioni edilizie dei comuni emiliani si configurano infatti come rendita passiva. Il 3% – che non riguarda insediamenti produttivi e logistici che si ritengano “strategici” – comporterà la cancellazione delle previsioni inattuate, entrando in vigore tuttavia dopo tre/cinque anni di “interregno” nei quali i Comuni saranno sottoposti a forti pressioni speculative.

Il Piano comunale, espressione di autogoverno della società locale, è quindi a rischio estinzione, colpito a morte da una legge che lo considera alla stregua di scomodo, inefficace reperto di una fase in cui il dato sociale assurgeva al rango di priorità politica.

Invitiamo perciò i sindaci a manifestare un’espressione di dissenso, singola o collettiva, che possa interrompere l’iter di approvazione di una legge centralista e iniqua, che inciderà negativamente sulla qualità delle città e dei territori amministrati.

Ilaria Agostini, Piergiovanni Alleva, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Paola Bonora, Roberto Camagni, Lorenzo Carapellese, Sergio Caserta, Piero Cavalcoli, Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Paolo Dignatici, Anna Marina Foschi, Michele Gentilini, Maria Cristina Gibelli, Giovanni Losavio, Andrea Malacarne, Tomaso Montanari, Cristina Quintavalla, Ezio Righi, Piergiorgio Rocchi, Edoardo Salzano, Enzo Scandurra, Daniele Vannetiello, Francesca Vezzali