Sarebbe sbagliato negare che ci troviamo in una fase nuova, con molte trasformazioni incubate proprio nei dieci anni trascorsi dall’esplosione della crisi del 2007/2008, la cui più drammatica eredità è una disoccupazione giovanile ancora elevatissima. Ne cogliamo i segni anche nel singolare connubio che si viene realizzando tra il neoliberismo e varie forme di populismo, pregne di nazionalismo, nativismo, xenofobia.

Rispetto alla portata di tali trasformazioni – mentre è semplicemente strabiliante la superficialità con cui esponenti politici concentrati solo sul proprio ego, e sul desiderio di uccidere “Sansone con tutti i filistei”, decretano la fine della discriminante destra/sinistra – l’urgenza maggiore, per la sinistra e le forze progressiste che vogliono continuare a vivere, risiede nella necessità di uscire da un silenzio e un’inerzia che durano ormai da troppo tempo e le condannano alla scomparsa, attivando, al contrario, un cantiere culturale alternativo di vastissima portata.

PER COGLIERE LE ODIERNE tendenze di cambiamento – rispetto alle quali alcuni osservatori già paventano una frenata della crescita mondiale, anche in conseguenza degli embrioni di protezionismo e dell’incessante accumulo di “bolle” finanziarie e immobiliari – rimangono una variabile cruciale gli investimenti, dei quali l’Oecd dice che «sono stati il vero supporto mancante (missing) per la crescita globale, gli scambi, la produttività, i salari reali». Il calo degli investimenti, con la crisi e dopo, si è accompagnato a un intenso processo di introduzione di innovazioni, ancora tutto da decifrare nella sua natura e nelle sue conseguenze, specie sull’occupazione.

L’ESTRAZIONE DI MASSE ENORMI di dati e di informazioni dagli individui – tutti tracciati e monitorati – e la loro mercificazione e trasformazione in profitti per Google, Facebook e le altre corporations rendono non più riconoscibili i confini tra soggettività individuale e condizione sociale. Con le nuove tecnologie il lavoro, almeno in alcune aree, si trasforma e si arricchisce, ma la connessione perenne e l’accessibilità estesa non significano automaticamente maggiore libertà, possono anzi generare una rarefazione della sfera pubblica a sua volta incrementante la desoggettivazione e la depoliticizzazione già in atto.

Se l’individualizzazione passa attraverso una “esposizione costante del sé” e una “gamificazione” in cui l’offerta ininterrotta di stimoli si traduce in “forme di gioco” (espresse dal clic “mi piace”) che alla fine si risolvono in esasperazione della prestazione e della competizione, vediamo all’opera da una parte la trasformazione di ogni elemento di conoscenza in informazione mercificata, dall’altra l’ambizione a modificare gli stessi comportamenti manipolando e suggerendo desideri che non si sa di avere e alimentando il delirio di onnipotenza.

SI È FATTA, DUNQUE, PRESSANTE, a sinistra, la necessità di proporre un “nuovo modello di sviluppo”, un nuovo modello di sviluppo per l’epoca digitale. Ne abbiamo bisogno per dare al capitalismo – di cui alcune delle contraddizioni strutturali sono lo squilibrio domanda/offerta e la carenza di domanda aggregata – una base di domanda meno artificiosa di quella indotta dalle “bolle” del neoliberismo e, al tempo stesso, combattere la “distopia” di un mondo senza lavoro minacciata dall’avanzare dell’automazione. Marc Saxer suggerisce di pensare a un’”economia umana” e di strutturarla in una sorta di “economia a due settori” intercomunicanti – simile a quella suggerita da Riccardo Lombardi in Italia alla fine degli anni ’70 del secolo scorso -, un settore per così dire “capitalistico” digitale «che genererà il surplus necessario a remunerare il lavoro per il bene comune», un settore destinato agli human commons (dai servizi per la salute, alla cura degli anziani, all’allevamento dei bambini, all’istruzione e educazione, alla generazione di cultura e di conoscenza, ecc.), per i quali vanno creati appositi meccanismi di remunerazione.

QUESTO RAGIONAMENTO ha come presupposti una valutazione di insufficienza quando non di fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni e anche meri trasferimenti monetari del tipo “reddito di cittadinanza”) e, al loro posto, a) il ricorso allo Stato come employer of last resort, b) una democratizzazione della proprietà del capitale, mediante un maggiore slancio impresso alla democrazia economica, lo spostamento della tassazione dal lavoro al capitale, la costituzione di Fondi sovrani di investimento che socializzino gli alti rendimenti del capitale.

QUESTE PROBLEMATICHE non sono nuove. La retorica dell’esogenità e della naturalità dei fenomeni al presente è utilizzata per sostenere la causa della neutralità degli stessi. Ciò che ci si ripropone come cruciale è la profondità della trasformazione a cui dobbiamo aspirare e, di conseguenza, la possibilità di una direzione dell’innovazione verso una simile trasformazione e la qualità delle istituzioni pubbliche in grado di operare in tal senso.

ABBIAMO BISOGNO DI SOTTOPORRE a critica sia la “razionalità politica” dell’innovazione, sia la sua “razionalità scientifica”, in particolare la “razionalità dell’algoritmo” con la sua pretesa di corrispondere a una naturalizzazione oggettiva volta a trasformare tutti i fenomeni in stati di necessità chiusi allo spazio dell’alternativa.

Quando Henningen Meyer parla di “filtri” con cui “moderare” l’evoluzione tecnologica non intende solo “rallentare”: egli parla di un filtro “etico” (in gioco, per esempio, nelle biotecnologie: non tutto ciò che è possibile, solo per questo deve essere fatto); un filtro “sociale” (che può portare a implementazioni scaglionate nel tempo o a differenti forme di regolazione); un filtro “relativo a differenti modelli di governance imprenditoriale” (privilegiando forme che danno voce a un più largo numero di portatori di interessi); un filtro “legale” (si pensi alle controversie a cui sta dando luogo il caso della self-driving car); un filtro “connesso alla produttività” (qui si verificano gli effetti di ciò che gli economisti chiamano rendimenti decrescenti: una lavatrice equipaggiata con dispositivi elettronici simili a quelli del programma spaziale Apollo, non vi porterà sulla luna, continuerà semplicemente a lavare i vostri panni sporchi).

TUTTO CIÒ SPIEGA PERCHÉ bisogna collocare molto in alto le ambizioni riformatrici, nelle quali occorre far ricadere le problematiche della democrazia economica e di iniziative innovative sui “diritti di proprietà”. Le nuove tecnologie racchiudono forti istanze cooperative, nella direzione della creazione di sistemi produttivi in grado di autoprogettarsi e autoregolarsi, aprenti eccezionali “finestre di opportunità” che, anziché lasciate al solo capitalismo animato dalla volontà di consolidare i tradizionali rapporti di potere, possono essere utilizzati da lavoratori intenzionati alla “coprogettazione” in disegni alternativi.