Per comprendere con quanta passione un lavoratore svolge la propria attività bisogna stare attenti a cogliere dettagli apparentemente minori, ma rivelatori. Ad esempio, se una piccola aiuola di un piazzale asfaltato si trasforma come per miracolo in un orto operaio, ciò vuol dire che chi l’ha tirato su e lo cura quasi fosse un figlio neonato non considera la fabbrica un luogo di alienazione e sfruttamento. Tra i 100 mila metri quadri di asfalto e capannoni della Mancoop, nelle campagne del bassissimo Lazio tra Castelforte e Santi Cosma e Damiano, in questi giorni stanno germogliando peperoni, basilico e rosmarino. E’ in questo metro scarso di verde attrezzato che è stato seminato il germe della speranza, e quelle piantine appena spuntate dal terreno rappresentano, per i 53 soci-lavoratori di una neonata cooperativa che produce nastri per imballaggi, il simbolo della riappropriazione del loro lavoro e della rinascita dopo un decennio trascorso in balìa di multinazionali arroganti, speculatori della finanza e avventurieri del capitale.

Bisogna arrivare fin quaggiù, in questo lembo estremo del Lazio ad appena duecento metri dal confine con il casertano, per incontrare l’Argentina italiana. Ci si imbatte come in un’oasi dopo aver attraversato il deserto industriale della Pontina e aver incrociato i Tom Joad della Depressione italiana lungo la Route 66 di casa nostra, vinti dalla globalizzazione come i protagonisti di Furore lo furono del crac americano del ’29: lavoratori che presidiano stabilimenti ridotti a gusci vuoti, sikh del Punjab sulla strada come in un romanzo di Cormac McCarthy, prostitute dell’est o nigeriane a passeggio da un angolo a un altro di una piazzola.

Gli operai della Mancoop hanno realizzato un miracolo di cui nessuno si è accorto, né i media intorpiditi da una recessione culturale non meno grave di quella economica e tantomeno i politici, impegnati in una metafisica del potere troppo distante dalla realtà per poterla illuminare a dovere. Nel gennaio del 2011 la fabbrica – che allora si chiamava Evotape – era morta, i 40 mila metri quadri di capannoni sigillati come un sarcofago, le macchine invidiate dai fabbricanti di adesivi di tutto il mondo messe a riposo in attesa di essere smontate e rivendute. Due anni dopo, il primo marzo del 2013, anno quinto della Grande Crisi che sta retrocedendo l’Italia nel purgatorio d’Europa, quelle stesse macchine riprendevano lentamente a sgranchire rulli e nastri trasportatori, come un gigante che si risveglia da un lungo coma. E i primi assunti della nuova impresa prendevano a coltivare, in quel metro quadro di terreno sottratto al cemento, l’orto della rinascita.

La Mancoop è oggi una fabbrica autogestita e in via di recupero, come nell’Argentina del «fracaso» del 2001. Erasmo Olivella è il presidente della cooperativa che ha preso il posto della vecchia società fallita e sta riavviando la produzione. Assiso a un tavolo della ex sala mensa, ora adibita a sala assemblee, sotto uno striscione che recita «i soci lavoratori della Mancoop non chiedono assistenza ma sostegno per creare lavoro», quest’uomo dal carattere sanguigno e dalla marcata inflessione dialettale si vanta del miracolo: «In un momento di crisi come questo siamo riusciti a creare posti di lavoro». E si infervora quando denuncia: «Non siamo stati aiutati da nessuno».

Dal padre padrone al manager

La storia merita di essere raccontata tutta e dall’inizio. Per la sua particolarità e perché emblematica di come sia possibile aprire delle brecce nell’apparente monolitismo di quel capitalismo finanziario che ha inglobato e distrutto, in pochi anni, la produzione e il lavoro. Dimostra, inoltre, che è possibile mettere in discussione la relazione tra padroni e operai, e che questi ultimi non hanno necessariamente bisogno dei primi – delle loro capacità manageriali e dei loro capitali – per lavorare e produrre. Insomma, la Mancoop è un prototipo, un possibile modello di uscita dalla crisi, un antidoto alla Grande Depressione.
Olivella volge le spalle a un cartello che ricorda la data di nascita dello stabilimento: il 1957. La Manuli prendeva il nome dal cognome del fondatore: Dardanio Manuli, un siciliano di Linina (Messina) che, a partire dal primo stabilimento a Milano negli anni ’30, aveva creato un gruppo industriale presente in quindici Paesi, con oltre tremila dipendenti e un fatturato di mille miliardi di lire dell’epoca. Fu solo nel dopoguerra, quando arrivarono i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, che decise di spostare la produzione di nastri adesivi isolanti al sud e mise in piedi la fabbrica di Santi Cosma e Damiano.
Rievocare le origini e i bei tempi della Manuli, quando qui dentro lavoravano 450 persone e tutto andava per il meglio, non serve ai lavoratori di oggi per indulgere nella nostalgia. L’anzianità di servizio dello stabilimento, spiegano, è alla base della resurrezione. Spiega Franco Patriarca, che mi fa da cicerone tra i padiglioni ancora sequestrati e gli altri noleggiati dal curatore fallimentare alla Mancoop: «nuovi arrivati assorbivano il sapere dei più anziani, è per questo che abbiamo conservato un know how che ci consente di riprendere la produzione anche senza un padrone. Qui abbiamo una professionalità che è difficile ricreare ex novo altrove». Patriarca non lo dice, ma il riferimento è alla Serbia, nuova frontiera del capitalismo globalizzato e di un liberismo di comodo a caccia di incentivi di Stato e bassi costi di produzione. E’ lì che sono finite una parte delle macchine spalmatrici che i lavoratori della Mancoop non sono riusciti a salvare. Ad ascoltare Patriarca, vengono in mente le pagine in cui Ermanno Rea fa descrivere a Vincenzo Buonocore, con dovizia di particolari, la dismissione dell’Italsider di Bagnoli.

I lavoratori all’epoca non potevano immaginare che alla morte del fondatore, nel 1998 alla non tenera età di 92 anni, sarebbero cominciati i guai. Non trascorse molto tempo, infatti, prima che la Manuli decidesse di cedere l’azienda a una multinazionale americana, la Tyco. Non è necessario essere degli esperti di nastri adesivi perché questo nome risuoni familiare: il crac della big company – una conglomerata da 36 miliardi di fatturato – seguì immediatamente quello della Enron, ed entrambi i fallimenti divennero l’emblema delle follie del capitalismo rampante americano degli anni ‘90. Il caso che fece diventare il suo numero uno un paradigma delle follie dei manager della Manhattan da bere post-reaganiana merita di essere raccontato. Dennis Kozlowsky, all’apice del suo successo, decise di regalare alla consorte una festa di compleanno in una villa in Sardegna. Ben prima del capogruppo laziale del Pdl Carlo De Romanis, che per festeggiare la sua elezione indisse a spese della collettività un toga-party in stile antica Roma, Kozlowsky curiosamente organizzò un’analoga festa, con tanto di ragazze vestite da Poppea, agenti della security  in divisa da centurioni e finanche un gladiatore a torso nudo. A inchiodare i partecipanti al loro cattivo gusto ci pensò dapprima un video amatoriale che fece il giro delle tv americane. Ma la vicenda virò dallo scandalistico al penale quando si venne a sapere che il party era stato pagato con denaro dell’azienda: in totale un paio di milioni, 250 mila euro solo per l’esibizione del cantante Jimmy Buffet. Kozlowsky provò a difendersi sostenendo che, pur essendo gli invitati abbigliati come a una festa di carnevale, fra di loro i toni delle conversazioni erano quelli seriosi di una riunione di un consiglio d’amministrazione: «Quando si era seduti o ci si incontrava parlavamo di quello che stava succedendo in azienda». Non gli credette nessuno, naturalmente, tantomeno il giudice, che lo condannò a 8 anni di carcere per aver utilizzato, insieme all’ex direttore finanziario Mark Swartz, ben più dei due milioni della festa in maschera: in tutto dalle casse della Tyco erano stati fatti sparire, per fini personali, 600 milioni di dollari.
A pagare le spese della pagliacciata sarda e delle altre spese allegre dei manager della Tyco furono anche gli operai di Santi Cosma e Damiano. La parabola della fabbrica laziale è divenuta così una metafora perfetta del declino industriale italiano e dell’evoluzione del capitalismo negli ultimi cinquant’anni: dal padre padrone all’italiana ai rampanti americani, fino alle banche e alle grandi finanziarie che aleggiano come avvoltoi sulle macerie del capitalismo, interessate solo a speculare e rivendere, mai a produrre. La ormai ex Manuli ed ex Tyco finisce infatti nelle mani di un fondo lussemburghese, Blu-O, «specializzato in ristrutturazioni di aziende di medie dimensioni», come si può leggere sul suo sito. Per gli operai comincia la via crucis degli stati di crisi e delle casse integrazioni – i costi, naturalmente, sono sempre scaricati sull’odiato Stato – finché l’azienda viene ceduta, per 19 milioni di euro, a una multinazionale messicana, anch’essa produttrice di nastri per imballaggi: la Alma Monta. Il suo boss Pablo Keller si presenta con un ambizioso piano di investimenti, che sostiene essere finanziato nientemeno che dalla Banca Mondiale, e in una conferenza stampa annuncia: «La Evotape – questo l’ultimo nome della Manuli, ndr – rappresenta il nostro primo investimento in Europa, che continuerà nella sua ricerca di opportunità di investimento». E’ il 21 giugno 2010, sei mesi dopo la fabbrica chiuderà per mancanza di liquidità. Per i 137 lavoratori si spalanca l’abisso della mobilità, che in un paesino del sud Italia ai tempi della Grande Crisi non è altro che l’anticamera della disoccupazione. Cioè della perdita d’identità e di ruolo sociale.

Stalingrado non si espugna

Se un grande choc può provocare, per reazione, effetti opposti a quelli preventivati, quel che è accaduto a Santi Cosma e Damiano ne è la dimostrazione. E’ in quei giorni di disperazione e sconforto, con decine di famiglie sul lastrico e un indotto azzerato, che in molti di loro scatta la voglia di reagire. «Ci siamo detti: questa fabbrica chiude non perché non produce più nulla ma perché vittima di speculazioni finanziarie, noi non sappiamo fare altro, se stiamo insieme possiamo provare a ripartire», spiega uno di loro. «Piuttosto che stare ad aspettare un Godot che non sarebbe arrivato mai, vale a dire un intervento dello Stato o un altro compratore, abbiamo deciso di rimetterci in gioco», dice Olivella.
Agli operai della Evotape non difetta, oltre all’indubbia capacità lavorativa, una solida cultura politica e sindacale: «Eravamo in stragrande maggioranza iscritti alla Cgil, ai tempi del Pci eravamo considerati una sorta di Stalingrado operaia, eravamo noi ad aprire sempre le feste del primo maggio», raccontano i più anziani. Di sicuro un background del genere ha fornito loro la capacità di organizzare una resistenza che ha pochi pari nel nostro Paese. Attutita dal silenzio della campagna circostante e dalla lontananza mediatica, ma non per questo meno incisiva. Per due anni una parte dei lavoratori, quelli che hanno creduto possibile una rinascita, hanno presidiato giorno e notte lo stabilimento per evitare che ladri interessati o occasionali portassero via o danneggiassero i costosi e indispensabili macchinari. Per un periodo l’hanno anche occupata. Minacciati di sgombero, hanno puntato gli idranti contro la polizia: «Se ci provate, finisce come al G8 di Genova». Ancora oggi ammettono: «Avremmo resistito, non volevamo abbandonare un luogo simbolo del nostro territorio».

L’antidepressivo

«Non abbiamo voluto vivere la depressione». Per la prima volta dall’inizio di questo viaggio sento pronunciare questa parola. Accade in queste campagne del basso Lazio, dove basta guadare un torrente per ritrovarsi in tutt’altra terra: il casertano dei Casalesi, della «little Africa» dei raccoglitori di pomodori e dei villaggi abusivi affacciati sul mare. Ad ascoltarla, ci si sente come un cercatore del Sacro Graal che si imbatta in una prova decisiva della sua esistenza: la Grande Depressione non è un’invenzione, è qui, ora, non è solo una suggestione giornalistica o la boutade di un Paul Krugman qualsiasi. Si respira nell’aria e finalmente c’è chi trova le parole per nominarla. Ma si può combattere e superare. E’ questo l’insegnamento dei lavoratori della Mancoop, ex Evotape, ex fondo lussemburghese, ex Manuli.

La guerra tra poveri è però sempre in agguato. Non tutti gli ex operai hanno aderito alla nuova cooperativa: più della metà dei lavoratori della ex Evotape hanno deciso di accontentarsi del sussidio statale e di non impegnarsi in questa avventura. Ci sono state polemiche, incomprensioni e liti, in particolare con la Cisl. «Purtroppo da queste parti c’è diffidenza nei confronti delle cooperative, molti avevano paura e non hanno voluto rischiare», spiega Olivella. Il presidente della Mancoop ci tiene a precisare che il percorso che ha portato alla costituzione della cooperativa è stato «inclusivo, le assemblee sono state aperte a tutti». La quota sociale era poco più che simbolica: cento euro. «Ma oggi, ancora prima di ricominciare a produrre, siamo già in attivo di 11 mila» grazie alle prime commesse, raccontano con orgoglio. Si trattava solo di resistere a oltranza e di lavorare senza guadagnare. In 53 lo hanno fatto per due anni: andando a presidiare la fabbrica pur senza prendere lo stipendio, per non consegnarsi alla depressione del non lavoro e trasformarsi anche loro in Tom Joad del XXI secolo, costretti a emigrare chissà dove.

La democrazia partecipativa

La Mancoop adotta un metodo che Dario D’Arcangelis, sindacalista della Cgil che mi fa da guida nel deserto industriale del basso Lazio e che, come un beduino del Sahara, conosce le oasi in cui far tappa, definisce di «democrazia partecipativa»: tutto si decide in assemblea. In questa fase, l’autogestione è quasi totale: tutti fanno un po’ di tutto. I lavoratori sono riusciti a ottenere in fitto, a un costo di 180 mila euro l’anno, 20 mila metri quadri dello stabilimento. Finalmente proprietari di loro stessi dopo aver sperimentato padroni di diversa risma, avventurieri centroamericani e finanzieri senza volto, mostrano le macchine sottratte alla dismissione, ne descrivono con orgoglio e dovizia di particolari prestazioni e capacità, quasi fossero degli esseri viventi, un’estensione della propria capacità fisica e intellettuale.
La Mancoop ha appena fatto le prime assunzioni, ed entro i primi mesi ne prevedono 35. Si sono dati un tempo di tre anni per farla decollare, stimano un fatturato di 2-3 milioni all’anno. Dalle istituzioni vorrebbero non tanto solidarietà e neppure assistenzialismo, come ribadiscono a più riprese, ma una politica di sostegno e incentivo a imprese del genere, per rimettere in moto le troppe energie lavorative represse dalla recessione. Soprattutto, sperano che la loro esperienza sia replicata, come nell’Argentina del 2001: «Siamo un modello, la dimostrazione che si può uscire dalla crisi mettendo in gioco se stessi». Un fiore sbocciato a sorpresa nel deserto italiano, con l’ambizione di farne fiorire altri mille.