La parabola di François Truffaut è una compiuta incarnazione del paradosso di Roberto Longhi secondo cui critici si nasce e artisti si diventa. Peraltro nel suo caso l’antefatto ha qualcosa di fatale: figlio illegittimo, bambino riottoso, poi apache adolescente, autodidatta, arrestato per il furto di una macchina da scrivere, scelgono per lui i domiciliari Jenine e André Bazin, genitori adottivi. Lì si conclude un romanzo di formazione scandito nel folgorante esordio dei Quattrocento colpi, il cui primo giro di manovella anticipa di un giorno solo la precoce scomparsa del maestro (11 novembre 1958), al quale il film sarà dedicato.
Bazin aveva redento l’adolescenza sbandata di Truffaut nei cineclub del Quartiere Latino incoraggiandolo a tradurre la nativa edonistica cinefilia in una vera e propria militanza critica: alla fondazione dei «Cahiers du Cinéma», nel 1951, il nemmeno ventenne Truffaut, che all’inizio ovviamente non firma i suoi interventi, ha già dei riferimenti precisi e, in nuce, ha fatta sua una poetica che da un lato sospetta l’autarchico e nazionalistico «cinema di qualità» (lo stesso degli Autant-Lara, ai suoi occhi nient’altro che letteratura e teatro filmati), dall’altro avvalora, guardando al cinema internazionale e specialmente a Hollywood, la quota di autocoscienza autoriale in registi ritenuti dei semplici artigiani come i da lui prediletti Alfred Hitchcock, Howard Hawks e Max Ophüls: elaborata insieme con i più giovani confratelli dei «Cahiers» (Rivette, Chabrol, Godard), si chiamerà «politica degli autori». Ma i «Cahiers» hanno poche centinaia di abbonati, si rivolgono in sostanza agli addetti ai lavori e pertanto Truffaut sente l’esigenza di un più vasto uditorio: che trova scrivendo su «Arts», il settimanale di Jacques Laurent, scrittore scanzonato e seduto alla destra dei cosiddetti Hussards, lui che infatti ha già affidato la rubrica gemella di letteratura a Roger Nimier, fra gli «Ussari» il più romantico e destrorso, un battistrada. Truffaut vi pubblica i quasi cinquecento articoli (fra recensioni, reportages, necrologi) per la più parte contenuti adesso nel corposo volume Chroniques d’Arts-Spectacles (1954-1958) (a cura di Bernard Bastide, Gallimard, pp. 524, € 24,00).
Se lo stile riservato ai «Cahiers» persegue lo specialismo esoterico o comunque un’autodisciplina teorica, lo stile da rotocalco di «Arts» impone al contrario una parola diretta, spesso polemica e urticante. Truffaut è un critico nato, uno scrittore vibrante e inventivo la cui pecca, ma si direbbe piuttosto un peccato di gioventù, è di oscillare fra il diniego sprezzante (per stare agli italiani, De Sica è detestato per il sentimentalismo, Fellini incompreso, ritenuto un ingenuo) e viceversa la complicità verso i compagni di via, coloro che sente grandi maestri inascoltati (Renoir, Bresson, Rossellini) o artisti da sempre disconosciuti come, fra molti altri, Samuel Fuller e Edgar G. Ulmer. Il giovane Truffaut scrive à la diable, chiaro, veloce, volentieri abrasivo e qualcuno ha osservato che le sue recensioni sono agli antipodi delle regìe future, le quali svelano un temperamento cinematografico opposto perché portato all’elegia, all’indagine dei sentimenti più teneri e riposti, infine a una malinconia (storie di gioventù perduta, di donne segretamente spezzate) che in più di un caso si manifesta nel sentimento della costernazione e della afflizione mortuaria.
A leggere in integrale le Chroniques la contraddizione appare evidente pure se non si percepiva in maniera tanto netta nella antologia di testi critici direttamente licenziata dal regista nel 1975, I film della mia vita (Marsilio), che però li aveva annessi ad altri usciti nei «Cahiers» soltanto dopo averli, per così dire, addomesticati. Va aggiunto che pur venerandolo, come attesta il necrologio terminale di Chroniques, Truffaut va molto lontano da Bazin, essendogli estranei sia lo spiritualismo cattolico sia la dialettica sartriana e cioè i propellenti dello stile di un uomo vocato al dubbio, alla riflessione problematica, a un giudizio sempre ponderato. (E lo sa bene, se nella recensione al western di Budd Boetticher I sette assassini, ’56, ammette con affettuosa ironia che il suo giudizio è moderatamente positivo «solo per far piacere a Bazin…»). Costui era cosciente del fatto che i modelli di Truffaut stavano dove mai ci aspetteremmo, nelle pagine anteguerra di due grandi pionieri, entrambi fascistissimi: Lucien Rebatet, che sul periodico «Je suis partout» firmava proustianamente François Vinneuil stupende recensioni di film sovietici o espressionisti; e Robert Brasillach, autore con suo cognato Maurice Bardèche, nel ’35, di una fondamentale Histoire du Cinéma. Remoti dallo stile del giovane Truffaut sono anche gli eredi della prima serie gialla dei «Cahiers», l’uno Serge Toubiana suo biografo (Lindau 2002), l’altro Serge Daney, la cui opera testamentaria (Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo, Il Castoro 2005) punta esplicitamente su Bazin e non certo sul teppista che scriveva in «Arts».
La forza della scrittura critica di Truffaut è tutta nella pointe, l’ardente apologia o l’attacco acuminato che diviene all’istante aforisma critico. Ecco per esempio Viaggio in Italia (1955) dell’amato Rossellini: «Itinerario spirituale è, allo stesso tempo, il diario intimo di una coppia, una suite di variazioni sul matrimonio, un poema in gloria dell’Italia. Un cineasta che ama il proprio paese, lo guarda e ci invita a guardarlo con lui»; o anche Un condannato a morte è fuggito (’56) del non meno amato Robert Bresson: «L’idea che Bresson si è fatta del cinema lo porta a condannare pressoché tutti i film dei suoi colleghi. Solo l’opera di Carl Dreyer è gradita ai suoi occhi (ma non apprezza il paragone che si stabilisce di frequente tra i film di quest’ultimo e i suoi)»; o infine l’eversione de Il Rosso e il Nero (’54) del detestato Claude Autant-Lara: «Il film diventa qualcosa come Il Rosa e il Grigio perché è così diluito che quello che in Stendhal era infame o sublime qui diventa furbesco o delirante».
Fatto sta che nel 1957, a due anni dall’esordio ufficiale, Truffaut ha già firmato un paio di cortometraggi e si sente prossimo a lasciare la critica. In un articolo dal titolo eloquente, Nous sommes tous des condamnés, si sorprende a pensare che nessun bambino direbbe mai «da grande voglio fare il critico» perché la critica per lui è ammissibile solo a condizione di considerarla come un lavoro provvisorio, uno stadio transitorio, e ne deduce che l’ideale sarebbe di scrivere soltanto dei film e dei cineasti che si amano. Una simile tautologia che ormai somiglia a una palinodia è firmata dal medesimo critico che per anni si è scagliato contro i registi artisti e il cinema di qualità mentre ora ritiene insensato consacrare la stessa attenzione e talora lo stesso linguaggio a tutti i film indiscriminatamente: «Nostra chance straordinaria è che nove su dieci dei film di cui ci occupiamo sono girati da individui meno intelligenti e meno ‘artisti’ di noi». Segno che il François Truffaut ritenuto un mestatore, un giornalista a piede libero, ha iniziato a incarnare il paradosso di Longhi. Dietro la macchina da presa sente pulsare la reversibilità o anzi la identità fra cinema e amore: lascerà traccia scritta di questa equivalenza per lui evidentemente naturale in una clausola che dice je t’aime je te filme.