Ventisei anni dopo la strage, i familiari delle 140 vittime del Moby Prince sono ancora in attesa di giustizia, una qualsiasi dopo due processi finiti nel nulla negli anni ’90 e un’inchiesta archiviata un decennio fa. Nell’anniversario del disastro, lunedì, a Livorno qualche centinaio di persone si è ritrovato per la commemorazione, come ogni anno e ogni anno con più rabbia. Perché il tempo passa e nulla accade, l’impatto mortale tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo resta un mistero senza responsabili.

Le due associazioni di parenti delle vittime continuano a sperare, con le poche forze che restano. Adesso c’è una commissione parlamentare d’inchiesta ma bisogna fare presto, che la legislatura è alla fine e ancora manca molto per arrivare a una qualche verità. Il senatore del Pd Silvio Lai, presidente della commissione, ha offerto però una notizia: «Un fascicolo di atti senza indagati» aperto dalla procura di Livorno su un dettaglio nuovo, cioè un documento dell’ex Sismi recentemente declassificato dalla Commissione rifiuti in cui la strage del Moby Prince è inserita in una mappa concettuale sul «traffico di materiale bellico recuperato, di scorie nucleari e di armi».

L’informativa è datata 3 aprile 2003 ed era indirizzata alla divisione ricerca e antiproliferazione dei servizi italiani. La fonte sarebbe il faccendiere di Busto Arsizio Giorgio Comerio, che secondo il Sismi aveva in mente di scaricare in mare delle scorie nucleari. Lui, ascoltato dalla commissione, ha tuttavia negato ogni addebito e adesso la faccenda è al vaglio degli uffici giudiziari di Livorno, nell’incertezza che necessariamente accompagna ogni inchiesta che prova ad accendere la luce dopo decenni di buio. È il copione di tutti i cosiddetti misteri italiani: tutti diversi eppure tutti uguali nel loro intrecciarsi senza arrivare mai a un punto fermo.

«Ci sforziamo di essere ottimisti – dice Loris Rispoli, presidente dell’Associazione 140, durante la commemorazione nella sala del consiglio comunale –, il lavoro che sta facendo la commissione d’inchiesta è encomiabile, ma ogni cosa era già scritta, basta leggerla in maniera diversa da come si è fatto fino a questo momento. A noi non interessa che i responsabili vengano condannati a uno, sette o trent’anni, ci basta che vengano riconosciuti». Anche Angelo Chessa, figlio del comandante del peschereccio, prova a guardare i pochi lati positivi: «I punti fin qui emersi stanno ribaltando le sentenze scritte dal tribunale».

L’elenco delle mancanze è lungo: il ritardo nei soccorsi, la posizione della Agip Abruzzo, il guasto ai radar, gli errori nelle manovre per cercare di evitare l’impatto. Perizie e controperizie non hanno mai fatto chiarezza, ogni ipotesi si è spenta con il passare del tempo, nelle aule di tribunale nessuno è stato capace di dire una parola definitiva su quello che è successo il 10 aprile del 1991 al largo delle coste toscane.

Il silenzio che ha contraddistinto tutta la giornata di commemorazione è stato interrotto solo dai rumori tenui del porto quando sono stati letti i nomi delle vittime, prima del lancio delle rose rosse nelle acque del porto. Speranza e rabbia, perché il tempo continua a passare e se da un lato tutti guardano alle nuove scoperte con un minimo di fiducia, dall’altro il dolore per le perdite non accenna a diminuire. «A una persona puoi togliere tutto – si è commossa Paola Bruno, che sul Moby Prince ha perso un figlio –, ma i figli no, mai. Prima di morire vorrei un po’ di giustizia, posso arrivarci? Non lo so». La verità è che non lo sa nessuno, tutto è appeso al filo sottile di una commissione d’inchiesta che dovrà accelerare il passo se vuole concludere qualcosa.

È così che, nel pomeriggio, qualche centinaio di persone si è mossa in corteo dal centro di Livorno fino al porto mediceo dietro allo storico striscione «Moby Prince, 140 morti nessun colpevole». C’erano i familiari delle vittime, il sindaco Filippo Nogarin, le delegazioni dei comuni da cui provenivano i marittimi uccisi, una rappresentanza dei familiari delle vittime della strage di Viareggio. In mattinata, nel giardino della Fortezza Nuova, è stato inaugurato anche un monumento, un’aiuola di tufo con 140 gerani bianchi, uno per ogni vittima della tragedia. Livorno non dimentica.