Quella notte non c’era nebbia. La mattina dell’11 aprile 1991 mio padre smontando dal turno in raffineria ci raccontò cos’era accaduto a poche miglia dal porto di Livorno. Ci disse che dopo essere stato avvisato della collisione tra il Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo, avvenuta pochi minuti dopo la partenza del traghetto, era salito più volte nel punto più alto dell’impianto, a 40 metri, ogni volta con la speranza di non scorgere più i bagliori dell’incendio, che però sarebbe stato spento solo alle prime luci dell’alba. Un solo superstite dei 141 a bordo, in una mattina di primavera oscurata dalla colonna di fumo che segnava l’inizio di quella che è diventata, nel corso degli anni di inchieste, la nostra Ustica del mare.

Le associazioni dei familiari delle vittime, Associazione 140 e Associazione 10 aprile, hanno avuto un ruolo decisivo nella battaglia giudiziaria e nella salvaguardia della memoria. Con il passare del tempo sono nati omaggi artistici, spettacoli teatrali, canzoni, e ovviamente cortei e cerimonie commemorative; da due anni le iniziative per l’anniversario sono contingentate a causa del virus, ma la partecipazione è ogni volta più sentita. In questo 10 aprile, a 30 anni dalla strage del Moby Prince abbiamo la sensazione che sia finalmente la città tutta a chiedere verità e giustizia. Con Emilia Trevisani, giornalista e amica che da alcuni anni si occupa del caso Moby Prince per ilfattoquotidiano.it ci vediamo in Fortezza Vecchia. Arrivate sul prato, ci dirigiamo verso la piccola folla distanziata, composta da autorità, familiari delle vittime e giornalisti.

Qui, di fronte alla scultura Koningin Juliana (il nome originario dell’imbarcazione della Moby) di Federico Cavallini dove dal 2016, anno della sua istallazione, si svolge la commemorazione laica, incontriamo Giacomo Sini, fotoreporter e nostro collega, i cui servizi appaiono spesso anche su queste pagine.
Antonio Sini, suo padre, era sul traghetto. Il vento non dirada l’emozione: ci abbracciamo e scambiamo qualche riflessione su questo trentennale.

La strage che ti ha toccato da vicino ha influito sul tuo percorso professionale?
Mia madre sostiene che se non fosse accaduto niente, oggi non sarei chi sono. Io non saprei…però credo che il bisogno di raccontare, la voglia di documentarmi, è nata lì da bambino, ero circondato da un fenomeno mediatico forte. Adesso con il fotogiornalismo mi dedico a descrivere le vicende di persone che subiscono angherie come la nostra, soprattutto all’estero. Cerco verità anche fuori.

Non è stata fatta né verità né giustizia, ma la città sembra almeno conservare e coltivare la memoria, non credi?
Trenta anni fa, la strage era un tabù, non c’era partecipazione al lutto; nel tempo grazie a Loris Rispoli, il presidente dell’Associazione 140, le iniziative culturali in sostegno alla nostra battaglia si sono moltiplicate. Adesso esiste una rete. Il lavoro di Documenta e di Uovo alla Pop per esempio è fondamentale: vedere i nomi delle vittime affissi sui manifesti per strada è di grande impatto. Detto questo il 10 di aprile, finita la pandemia, vorrei vedere migliaia di persone in piazza, perché la vicenda riguarda la città tutta.

Hai visto gli oggetti rinvenuti a bordo?
Sì ne ho visti alcuni, ma non ce la faccio. So che c’è anche la giacca di mio padre ma non ho mai voluto vederla. Eppure capisco che sia importante mostrarli per la memoria e a testimonianza della dinamica dell’incidente, della permanenza a bordo e le cause della morte, evidentemente lenta, dei passeggeri.

C’è una funzione religiosa in Duomo, poi la cerimonia istituzionale con il dono alla città dell’artista Francesco Vieri dell’opera «La verità a terra», gli interventi del presidente della regione Eugenio Giani, alla presenza del senatore De Falco e dei rappresentanti delle associazioni dei familiari delle vittime, Angelo Chessa (figlio del comandante del Moby Prince, Ugo Chessa) per Associazione 10 Aprile, e Nicola Rosetti dell’Associazione 140. Il presidente Loris Rispoli non ha partecipato alle commemorazioni per motivi di salute e a lui, da 30 anni in testa al corteo e alla battaglia per la verità è dedicato il successo e il calore umano di questa giornata, che come da tradizione si conclude con la lettura dei nomi delle vittime all’Andana degli anelli, nel Porto di Livorno, e il lancio di 140 rose rosse nelle sue acque.

Le iniziative menzionate da Giacomo sono alcune delle tappe previste dal lungo percorso artistico di recupero della memoria della strage, che fanno parte del Progetto Documenta. Il primo, che si è potuto portare avanti nonostante la situazione sanitaria, proprio per il suo carattere urbano, è 140*140, una call di arte pubblica aperta a tutta la cittadinanza ideata e promossa dall’associazione Documenta e dalla galleria «Uovo alla pop»: 140 cittadini hanno realizzato 140 manifesti con il nome e l’età di ciascuna vittima del Moby Prince. Ai partecipanti sono stati forniti dei file con i font da utilizzare per il nome e l’età della vittima assegnata e delle semplici istruzioni per la composizione grafica. I 140 manifesti stampati sono stati affissi in vari punti della città, insieme alle altre affissioni: le vittime sono finalmente rientrate a far parte del contesto urbano e cittadino, appartengono oggi alla città e alla sua vita, così come la vicenda del Moby Prince è nostra e come tale va affrontata. Va in questa direzione l’impegno di Documenta, progetto nato nel 2019 come costola dell’associazione Effetto Collaterale che lavora dal 2012 sulla memoria della strage del Moby Prince attraverso il linguaggio teatrale e performativo coinvolgendo in prima persona i cittadini come «attivisti della memoria».

«Abbiamo rivolto una chiamata alla memoria a tutti i cittadini di Livorno in occasione del trentesimo anniversario della strage-spiega la presidente Francesca Talozzi- per non dimenticare ciò che è accaduto, per continuare a chiedere verità e giustizia su quella che è stata la più grande tragedia della marineria italiana. Quest’anno Documenta ha compiuto un salto in avanti diventando un progetto di rete che coinvolge, oltre ai cittadini, anche molte associazioni, enti e istituzioni della città. La loro adesione al progetto è stata forte e appassionata, un segno di quanto la memoria della strage sia ormai patrimonio di tutti e non un mero ‘fatto privato’ che riguarda solo i familiari delle vittime».

E oggi ci sentiamo davvero così: la strage del Moby Prince coinvolge tutti, improvvisamente la città inizia ad avere coscienza della strage, a rivendicare la mancanza di spiegazioni, motivazioni, la scarsa efficienza giudiziaria e i ritardi e depistaggi nelle indagini che a oggi, lo ricordiamo, non hanno fornito risposte su molte domande, l’una collegata all’altra.

In primis non si conosce la causa della collisione con l’Agip Abruzzo, né si sa perché la petroliera si trovasse in area vietata alla navigazione. Ma quel che è più fondamentale per le vite perse è capire il perché del ritardo nei soccorsi ai passeggeri. Gli oggetti rinvenuti a bordo, in possesso della Polizia marittima fino allo scorso anno, costituiscono un esempio lampante di una cattiva abitudine italiana, che va oltre la semplice rimozione, una vera e propria dinamica distruttiva che limita la coscienza collettiva. Riconsegnati dalla Polizia Marittima al presidente Loris Rispoli, gli oggetti non erano in fermo, ma sono riapparsi casualmente durante un trasloco. Molti sono pressoché intatti e questo dimostra che una buona parte dei passeggeri a bordo ha atteso per ore i soccorsi e non è morta, come invece era stato ipotizzato, improvvisamente avvolta dalle fiamme.

Gli «Oggetti di una strage» sono stati fotografati da Attilio Zavatta e raccolti in un catalogo: «È tutto ciò che resta del relitto, rimasto per sette anni ormeggiato in porto, alla vista di tutti ma invisibile alle istituzioni e poi trasportato in Turchia per essere smantellato. Un relitto che avrebbe avuto bisogno di una riflessione più profonda, sicuramente non semplice per un oggetto con quella portata storica e emotiva» spiega Zavatta , «gli oggetti meriterebbero essere messi in condizione di essere visti, sono estremamente fragili e la maggior parte dei familiari li vede adesso per la prima volta. Pubblicarne le foto è un’azione di salvataggio della memoria e di conservazione perché rischiano di deteriorarsi con ogni piccolo spostamento. Ho cercato di ricrearne un’immagine quanto più schietta e pulita di ognuno, proprio perché fossero loro stessi a parlare. Una foto diretta, per dar modo anche alle loro caratteristiche tecniche di raccontarsi: ci sono oggetti di carta, come la prenotazione di un hotel e un biglietto del treno che sono intatti, ingialliti dal calore ma non bruciati. Le immagini hanno il duplice intento di testimonianza e ricordo. La fotografia li salva dall’usura e li rende un documento diretto, il primo passo per la creazione di un archivio libero, informale».

Da sabato scorso sarebbero dovuti essere esposti all’ex Magazzino Ebraico, di fronte alla Fortezza Vecchia ma la situazione pandemica lo ha impedito; la mostra è rimandata a maggio- non appena il contesto sanitario lo permetterà: come racconta il fotografo Attilio Zavatta, saranno molti gli spazi della città a contribuire attivamente al lavoro collettivo di recupero della memoria promosso da Documenta. Tra questi anche il «Thisintegra», uno spazio che si occupa di inserimento socio lavorativo di persone con disabilità, dove è organizzato un laboratorio che culminerà nella lettura pubblica dei quotidiani del tempo. Ci saranno poi le installazioni fotografiche e audiovisive, le video interviste a cittadini che raccontano i loro ricordi della strage.

«Con Documenta abbiamo voluto creare una causa cittadina e far incontrare spazi e realtà diverse, utilizzando il loro interesse verso l’arte urbana-come è stato il caso di «Uovo alla pop»-lanciando un progetto dove l’autore fosse la città stessa, la collettività. ExtraFactory è una galleria che si occupa anche di fotogiornalismo e lì sarà allestita l’esposizione del materiale d’epoca, un fondo d’archivio di foto già stampate e dei quaderni con i ritagli della stampa raccolti da una cittadina negli anni immediatamente successivi, un lavoro certosino, svolto con uno spirito da archivista. Saranno esposti come esempio di attivismo e di atteggiamento documentale, volto alla conservazione della memoria. In questo senso è fondamentale la dimensione collettiva che Effetto Collaterale persegue fin dal 2012 con lo spettacolo «1991: il fatto non sussiste», che si è evoluto in un laboratorio e adesso in questa serie di iniziative. Io stesso ho conosciuto così la vicenda del Moby, avevo un anno quando è accaduto: la mia è una memoria acquisita attraverso l’indagine creativa».

Un modello artistico che vive di condivisione e di contributi collettivi e che colma il vuoto di una vicenda rimasta per tempo relegata a una dimensione locale e ancora purtroppo mai raccontata nella sua interezza e verità storica.