Un testo «trascurato» qui da noi, Il prezzo di Arthur Miller, è tornato invece in scena all’Argentina (fino all’8 novembre) dopo diverse decine di anni, ad inaugurare finalmente la stagione di prosa. Ebbe un’unica apparizione con lo specialista milleriano Raf Vallone e Mario Scaccia. Il successo l’altra sera è stato trionfale, e non è difficile prevedere che resterà uno migliori spettacoli della stagione, uno dei pochi. Un quartetto di interpreti tutti straordinari; la regia del quasi debuttante Massimo Popolizio (anche coprotagonista in scena) che si conferma portatore di molta della sapienza interpretativa del suo maestro Luca Ronconi; la presenza carismatica di Umberto Orsini che mostra grande piacere nel ruolo non principale dell’artefice magico (è lui del resto che ha scelto e prodotto quel titolo); una bella scena di Maurizio Balò che evoca una soffocante presenza di mobilio affastellato senza letteralmente darlo a vedere; i tempi giusti e una durata godibile da bere d’un fiato.

La storia è quella dei due figli, ormai maturi, di un vecchio bizzarro che ha raccolto in casa un volume sterminato di mobili, soprammobili, strumenti musicali, primordiali elettrodomestici, accessori e ammennicoli di ogni sorta. Un pianeta rigenerato nelle stanze ormai abbandonate, ad un piano alto, di un palazzone per è quale è giunta l’ora della demolizione. Come da quelle parti usa spesso, rigenerando corpo e skyline delle metropoli americane. Ma nell’occasione data dalla necessità di sgombrare quelle stanze, a rigenerarsi saranno anche i rapporti, inesistenti da una vita, tra i due fratelli «eredi» di quella montagna di trovarobato, nei cui meandri si trovano anche pezzi di gusto e di valore, o di assoluto e privato valore sentimentale, come la vecchia «arpa della mamma» per quanto monca e scordata.

E si chiariranno finalmente anche i rapporti con la complessa e contraddittoria figura paterna, tanto ingombrante quanto presente negli sviluppi della sua famiglia. Che insieme attraversa la devastante crisi del ’29, e si biforca nella complessità senza ritorno dei due fratelli dall’opposto destino.

Uno ha fatto il poliziotto, dopo aver abbandonato gli studi, e Popolizio ne fa un ritratto sorprendente e di imprevisto spessore. Senza la strafottenza macha dei suoi colleghi da serie tv, ma con sensibilità profonda che va dall’ingenuità ai più concreti sentimenti. Vittima, oltre che della malsana eredità paterna e dei rancori verso il fratello, di una moglie frustrata e ambiziosa, ma anche lei in fondo poveretta, di spirito oltre che portafogli. In questo ruolo Alvia Reale, una delle migliori attrici della scena italiana ormai, pesca quasi naturalmente nel repertorio del grande cinema Usa: né vamp né strega, ma testimone attendibile di quella quieta insoddisfazione dell’american way of life. L’altro figlio, spregiudicato e solo all’apparenza crudele, è un solido Elia Schilton, qui truccato alla Henry Kissinger, capace di ribaltare la ricchezza e i privilegi acquisiti in prezzo pagato al sacrificio verso il resto della famiglia.

In mezzo a loro, furbo e discreto, l’ebreo Salomon, chiamato a valutare il valore di quell’arredamento eventualmente da comprare, che con spiritosa eleganza non solo maschera l’avidità, ma si fa deus ex machina di quella chiarificazione definitiva. Umberto Orsini ha una classe senza limiti, una bravura non da meno, e una conoscenza del mondo ancor maggiore, se possibile. Tanto che alla fine, nel finale sognatore descritto dall’autore, si libra in un tip tap ammaliatore di diversi minuti.

Lo spettacolo è perfetto, come si è detto, la sua amarezza ci suona contemporanea dentro un crisi che rispetto a quella del ’29 non sembra avere fine, il racconto è scandito con maestria. Una sola nota può turbare lo spettatore alla fine, e riguarda soprattutto Arthur Miller e il suo teatro, senza spingersi alla sua vita privata: possibile che i suoi testi non possano uscire dalle variazioni su Edipo e i suoi figli, da Morte di un commesso viaggiatore a Erano tutti miei figli, in una sorta di incubo destinato a rimanere infrangibile? La preoccupazione per lui e il suo teatro può velare perfino il piacere di tutte quelle prove di bravura cui si è appena assistito.