«Non esiste una procedura per uscire dall’euro o dall’unione economica e monetaria creata dal Trattato di Maastricht del ’92». Enzo Moavero, ministro per gli Affari Europei nei governi Monti e Letta, mette un po’ d’ordine al dibattito che ha infiammato la giornata di ieri dopo un commento del Financial Times che evocava, in realtà alla lontana, l’eventualità di un’uscita dell’Italia dall’euro in caso di vittoria del No.

Di fatto l’Italia non può uscire dall’euro?

Nell’eurozona si può decidere di non entrare, come a suo tempo fece la Gran Bretagna; oppure si può non essere in grado di entrare e quindi rimanere in una sorta di sala d’attesa, come oggi un certo numero di paesi Ue. C’è invece una norma che consente di lasciare l’Unione europea, come nel caso della Brexit. Uscendo dall’Ue, si esce anche dall’unione monetaria e dall’euro; ma il recesso da quest’ultima, per poi restare nella prima non è regolamentato da nessuna disposizione o procedura.

In Italia i trattati internazionali non si possono sottoporre a referendum. Dunque servirebbe una scelta politica, e forte, di un governo?

Potrebbero crearsi le circostanze estreme in cui un paese non riesce più a rispettare i parametri. È il caso di cui si è discusso per la Grecia. Un’eventualità drammatica, fra l’altro per l’assenza di norme in materia. Si era e si sarebbe in una ’terra sconosciuta’, fuori dall’ordinario. Probabilmente è anche per questo motivo che non c’è stata nessuna Grexit. Abbandonare l’euro non è una scelta vietata, ma non è disciplinata. Anzi, le regole dell’eurozona prevedono una procedura per gli stati che abbiano dei parametri fondamentali fuori fase. È la cosiddetta procedura di infrazione, chiusa nel 2013 per l’Italia, mentre pende ancora per Francia e Spagna. Si tratta di un percorso ’correttivo’ che punta al recupero del paese; l’uscita è del tutto fuori dallo schema.

Di fatto fin qui l’Unione non ci è mai arrivata.

Ci si andò vicini per la Grecia, almeno nelle discussioni. Del resto persino le congetture di queste ore si basano sull’idea di una disintegrazione dell’eurozona o dell’intera Ue.

Però si può recedere dai Trattati europei in base al diritto internazionale.

Da qualunque trattato si può recedere. Ma nel caso dell’Ue il trattato è esplicito: al suo articolo 50 regola proprio l’uscita. Ci accingiamo a sperimentarlo con la Brexit. Un altro, diverso ordine di riflessioni attiene a cosa succederebbe se finisse l’euro. E qui c’è una copiosa, conflittuale letteratura. Non la giudico, mi limito a segnalare che si tratta sempre di analisi ipotetiche perché paragonano a una situazione reale una situazione che reale non è. Non voglio affatto dire che fin qui sia andato tutto bene, anzi a tutt’oggi, il roseo pronostico che l’euro, unendo ancor di più le economie degli stati, avrebbe accentuato la convergenza, non si è realizzato.

La vittoria del No a suo parere potrebbe davvero portare all’uscita dall’euro?

Penso che la vittoria del No, come quella del Sì, non cambierebbe nessuna delle condizioni giuridico-strumentali. E da cittadino, non mi sembra che, fra i tanti significati che si possono dare a un referendum già così composito nel merito, al di là del quesito, vada anche inclusa un’implicita domanda di adesione o rifiuto dell’euro.

Tutto dunque dipende dal quadro politico?

Certo. Qualche anno fa abbiamo già affrontato un referendum costituzionale: l’esito fu un No alla riforma varata dalla maggioranza di allora. Non mi pare ne siano seguiti particolari effetti disgreganti, né sul piano nazionale né su quello europeo.

Il Financial Times esagera?

Mi pare che Wolfgang Münchau (l’autore del commento, ndr) stabilisca una relazione diretta fra il prevalere dei cosiddetti populismi presenti nei vari paesi europei e l’eventuale No italiano. Non condivido questo automatismo. Trovo il termine ’populismo’ semplificatorio di fenomeni con natura complessa e differente. Inoltre, fra i sostenitori del No, ci sono partiti strutturati, nonché componenti della società civile, perfino del mondo dell’accademia, che è arduo chiamare ’populisti’. Insomma, il referendum non è una sorta di finalissima bipolare sull’intero sistema Italia, tanto meno sull’Ue. Siamo di fronte a una normalissima domanda prevista dalla nostra Costituzione. Trarne significati così estremi, tali da influire addirittura, nel bene o nel male, sui destini europei, mi sembra un esercizio opinabile.