Alias Domenica

Mo Yan di fronte alle colpe cinesi

Narrativa È il controllo delle nascite il tema di «Le rane», romanzo in cui lo scrittore cinese innesta elementi epistolari e teatrali in una sorta di epica popolare

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 30 giugno 2013

Tragico e straordinario laboratorio di grandiosi esperimenti socio-politici e persino antropologici – dalla riforma agraria degli anni ‘50 al catastrofico Grande Balzo in Avanti, dalla violenta convulsione della Rivoluzione culturale, fino alle recenti massive iniezioni di capitalismo – la campagna cinese è al centro dell’ultimo romanzo di Mo Yan, che si avvita intorno a un manipolo di contadini e alle loro sorti, segnate dal complesso rapporto tra corpo e politica, tra procreazione e ancestrale maschilismo sotto le rigide imposizioni del Partito comunista in materia demografica. Su questo stesso tema erano già usciti La ciliegia sul melograno (2004) di Li Er, che ruotava intorno alla figura di una funzionaria di villaggio alle prese con la difficile applicazione delle norme governative sulla procreazione, e La strada oscura di Ma Jian (uscito in traduzione inglese poche settimane fa), un cupo road novel su una coppia di contadini in fuga dalla punizione per aver violato la politica del figlio unico.
Metodo scientifico eppure viscerale di controllo esercitato sul popolo, la gestione delle nascite è appunto il tema portante di Le rane (Einaudi, traduzione di Patrizia Liberati, cura di Maria Rita Masci, pp. 392, euro 20,00) romanzo in cui Mo Yan, vincitore del Nobel nel 2012, innesta elementi epistolari e teatrali in una sorta di epica popolare. Wan Xiaopao, detto Girino, rievoca la propria vicenda personale tracciando il disegno della vicenda collettiva di oltre cinquant’anni di storia cinese e vi aggiunge il ritratto di una zia ginecologa, Wan Xin, passata dal ruolo di eroina socialista a quello di santa-aguzzina, simbolo dell’utopia demografica della Repubblica Popolare di cui è solerte e implacabile esecutrice. Nel suo impasto di idealismo e materialismo, la donna incarna una visione preordinata e positivista della società, condannata, per ragioni di sussistenza e sviluppo, a subire la più profonda e faustiana manipolazione dell’identità umana, quella procreativa.
Con la limitazione coatta della funzione riproduttiva a essere messo in discussione è uno dei fondamenti culturali della civiltà confuciano-contadina: «il più grave dei tre peccati contro gli antenati è non dare un erede al clan», detto tradizionale non a caso ripetuto anche nel romanzo di Ma Jian (dove il protagonista è un discendente di Confucio stesso). Per questo, nella Cina comunista, sin dalla fine degli anni ’70 si instaura una guerra sanguinosa tra le autorità preposte a far rispettare il mandato «celeste» demografico e la popolazione, pronta a escogitare le più audaci strategie per eludere le direttive del Partito e generare l’agognato maschio.
Wan Xin rappresenta prima la Cina maoista che esalta e incoraggia l’energia procreativa del popolo, poi quella denghiana che «in nome del cosiddetto … avvenire» innesca una capillare e mostruosa opera di controllo fatta di aborti e vasectomie, l’intervento sul corpo vivo del popolo, azione impietosa di un’ingegneria antropologica spinta all’estremo e «giustificata» dalle teorie della sostenibilità economica e energetica. Il controllo e l’abuso della sessualità, aborti, sterilizzazioni e divorzi forzati sono legittimati dall’ideologia progressista della «grande nazione» rappresentata liturgicamente dalla figura della zia, ostetrica-abortista, ossimoro eloquente di questa Cina bulimica e invasiva– lontana dall’ideale daoista del non agire – che edifica il suo futuro su un fisico e metaforico «cannibalismo sui bambini» (tema anche di un altro grande romanzo di Mo Yan, Il paese dell’alcol).
Si susseguono nell’affabulazione di Girino, drammaturgo soldato, co-protagonista e narratore, episodi drammatici e fantastici d’incomparabile suggestione, come la scena della fuga su una zattera di Wang Dan, che mette al mondo la figlia nelle acque del fiume (altro potente simbolo della Cina), sfuggendo alla ginecologa decisa a impedire la nascita illegale, o dell’aggressione di migliaia di rane contro la ginecologa stessa, spettrale e immaginosa nemesi di altrettanti feti soppressi. Il vagito del neonato e il gracidio dell’anfibio si confondono – il carattere di «bambino» e di «rana» in cinese sono omofoni – così come si confondono (accade spesso nella narrativa di Mo Yan) uomini e animali, tanto che questo romanzo è stato definito «biopolitico» dal sinologo sino-francese Zhang Yinde.
Bulimico è il romanzo stesso nella ridda di riferimenti intertestuali disseminati in una struttura ibrida – nel solco del mito-realismo (termine coniato dallo scrittore Yan Lianke), ma anche del tradizionale concetto dell’illusorietà del reale: «alcuni degli eventi non sono accaduti nella realtà, ma si sono verificati nella mia mente. Per questo per me sono tutti veri». Metanarrativa nel suo indagare il «legame tra sogno e creazione artistica», tra (pro)creazione umana e letteraria, l’opera si fa riflessiva denuncia alludendo allo scandalo della melamina nel latte per neonati, ai mortali roghi nelle città-fabbriche, ai privilegi e alla corruttela di ricchi e potenti in grado di aggirare i vincoli della pianificazione grazie al denaro o al ricorso a uteri in affitto. Mo Yan non tralascia nemmeno l’ossessione novecentesca del rapporto tra Cina e occidente, meditando sulle radici perdute: «Nelle zone di recente sviluppo come la nostra, elementi stranieri e locali si mescolano come il fango e la sabbia trasportati da un fiume, rendono difficile distinguere il bello dal brutto, il giusto dallo sbagliato.»
Il pastiche culturale si riflette nel pastiche linguistico orchestrato dallo scrittore tra discorso maoista e polifonia postmoderna, come nella musica dell’Opera di Pechino, una melodia di suoni e voci ora stridenti e acuti ora tambureggianti, commoventi ma violentemente satirici e un ritmo indiavolato, che la traduzione di Patrizia Liberati riesce sagacemente a conservare, insieme al linguaggio ipersensoriale, turgido, che caratterizza lo stile di Mo Yan, qui con un taglio più realistico e sorvegliato.
Le contraddizioni della storia cinese si agitano nel testo senza trovare una pacificazione, così come sembrano rimanere irrisolte le contraddizioni dello stesso Mo Yan, che pure conferma pienamente in questa opera, una delle più riuscite, il suo visionario talento e la capacità della grande letteratura di incarnare proprio tali antinomie. La scelleratezza di scelte politiche di così grave e profonda portata, pur suscitando l’accorata riflessione dell’autore, sembra sfumare nella ricerca ultima di una risposta religiosa al problema, eludendo – come sostengono alcuni critici cinesi – le autentiche responsabilità della politica e delle autorità. Come in una tragedia classica, la zia cerca nell’epilogo una redenzione di tipo religioso: l’episodio onirico delle rane si muta in conversione e consolatoria appare la figura dello scultore di bambini di creta. Mo Yan evoca il culto popolare della dea Niangniang, «elargitrice di figli», mentre di tono cristiano suona l’espiatoria confessione di Girino, che ha indirettamente causato la morte della prima moglie inducendola a abortire: «ogni bambino è unico e insostituibile. Potrà mai essere lavato il sangue che imbratta le mie mani? Potrà mai trovare redenzione la mia anima torturata dalla colpa?» Senso di colpa e responsabilità, così come la possibilità di riscatto, sembrano riservati ai singoli individui che si fanno carico di tale fardello storico. Mo Yan non assolve tutta la società e i suoi leader, tuttavia lascia aperto e paradossale l’esito della sua riflessione, quando nel finale la zia mormora: «Si può dire che non ho commesso atrocità… ma quelle cose che ho fatto… non lo sono?»
«Questa è la Storia e, per la Storia, il fine giustifica i mezzi» scrive sardonicamente Girino al suo interlocutore epistolare, il figlio di un ufficiale giapponese, che in qualche modo incarna il mondo occidentale al quale Mo Yan tenta di spiegare l’enorme paradosso cinese. E lo fa, anche, tramite le parole che definiscono uno dei personaggi più tragici del romanzo, la giovane madre in affitto Chen Mei, deturpata dal grande incendio in fabbrica: «Un orribile bozzolo che custodisce al suo interno una vita meravigliosa».

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