Quando stimati accademici di lungo corso decidono di consegnare al mondo una nuova opera potrebbero fare qualcosa di diverso dall’accorpare i testi da loro prodotti nell’ultimo decennio per occasioni le più varie. Dispongono dell’autorevolezza e beneficiano della fortuna di essere retribuiti per fare ricerca e diffonderla. Eppure capita che, forse per ansia di pianificare la propria futura memoria, preferiscano svuotare i cassetti e radunare i pezzi sparsi, anche quando questi mal si combinano. Sta poi al lettore, se proprio ci tiene, trovare nel fitto di ripetizioni, digressioni e autocitazioni, il senso del loro piccolo mausoleo.
È questo il caso di Scienza delle immagini Iconologia, cultura visuale ed estetica dei media, libro di William John Thomas Mitchell (1942) originariamente pubblicato nel 2015 e adesso edito in italiano (Johan & Levi, pp. 276, euro 27.00, traduzione di Federica Cavaletti). Eclettico per statuto epistemologico, Mitchell è a ragione considerato il grande vecchio degli studi di cultura visuale, un pioniere la cui avventura sul campo è iniziata nel 1986 con Iconology: image, text, ideology. Ciononostante, la prima edizione italiana di un suo libro è arrivata solo nel 2008 (Pictorial turn: saggi di cultura visuale); dopo di che, malgrado Cloning terror sia stato recepito con tempismo un anno dopo la sua uscita in lingua inglese nel 2011, non ha avuto luogo il ripescaggio di materiali che pure ci si poteva aspettare. Dunque se è apprezzabile che oggi venga posto rimedio alla disattenzione con cui è stato trattato uno studioso che ha fatto la storia dei visual studies, è comunque un peccato che ciò avvenga nella fase calante della sua spinta propulsiva.
Scienza delle immagini è diviso in due sezioni, Figure e Sfondi, ognuna delle quali è composta da otto saggi. Questa articolazione binaria rispecchia l’assunto metodologico secondo cui il rapporto tra oggetto e contesto è sempre reversibile. La cultura visuale non pensa mai la visione quale procedimento puramente ottico, perciò nelle intenzioni di Mitchell la scienza delle immagini è «una pratica critica che considera le immagini come i mattoni dei nostri mondi psicosociali, così come dei nostri modelli scientifici della realtà oggettiva. Essa pone anche le immagini stesse sotto indagine, come entità formali, materiali e quasi viventi, “imitazioni della vita” soggette a una storia naturale quanto culturale».
Antico dualismo anima-corpo

Centrale nella teoria di Mitchell è la distinzione tra image e picture, ossia tra l’immagine intesa quale idea disincarnata (image) e la sua manifestazione materiale, per quanto fugace (picture). Questa scissione serve a spiegare la circolazione delle immagini – attraverso media, culture e secoli –, nonché le continue transizioni delle stesse da concreto a virtuale e viceversa. Ma è evidente che si tratta dell’ennesima riproposizione dell’antico dualismo di anima e corpo: «le pictures sono la dimora in cui le images prendono residenza, i corpi in cui si incarna il loro spirito». Il ragionamento fa leva su una metafora biologica e anche se Mitchell assicura di non credere davvero nel vitalismo, ammette tuttavia di essere affascinato dall’idea che le immagini agiscano, desiderino, migrino come esseri viventi, con un carico di contraddizioni, difficoltà, frizioni e opposizioni. Forse «per questo i musei talvolta somigliano a campi profughi per immagini che vengono da un altrove, come dei rifugiati che fuggono dalla religione e dai riti, banditi dalla politica e dallo spettacolo». Di certo un bel passo avanti rispetto alla definizione di «tombe di famiglia delle opere d’arte» che Adorno dava dei musei.
In Mitchell la riflessione sulla visualità è inseparabile da quella sui media, vecchi e nuovi, e così come percepire non è mai una mera questione di apprendimento dei sensi, allo stesso modo l’esperienza dei media visivi non è un fatto pertinente soltanto all’occhio. A tal proposito lo studioso americano è lapidario: «non esistono media visivi», tutti i media sono mixed media e vanno esaminati come pratiche sociali materiali che implicano competenze, tradizioni, generi, convenzioni, abitudini e automatismi. «La specificità dei media, allora, è una questione molto più complessa dell’attribuzione di etichette sensoriali reificate come “visivo”, “uditivo” e “tattile”. È una questione che riguarda gli specifici rapporti tra i sensi che sono coinvolti nella pratica, nell’esperienza, nella tradizione e nelle invenzioni tecniche». Coerentemente, nessun medium ha la prerogativa di uno stile o di una prassi: il realismo, ad esempio, «non è “incorporato” nell’ontologia di alcun medium in quanto tale» e il fatto che l’immagine fotografica, ad esempio, aderisca al referente non è in sé garanzia di una rappresentazione più genuinamente realistica.
Un altro dei termini peculiari attraverso cui Mitchell porta avanti la propria analisi è metapicture, con cui indica la capacità di un’immagine, virtuale o tangibile, di contenerne altre che la strutturano e la qualificano. Ciò consente a Mitchell di comporre con le immagini la descrizione di una situazione storica che non sia riduttiva o semplificata. Nella sua «in-disciplina» infatti lo studioso sviluppa l’analisi su più livelli, tessendo collegamenti stimolanti, ma proprio in ragione di questa prospettiva sfaccettata non è raro che il discorso perda di coesione. Paradossalmente, Mitchell risulta più interessante quando lancia interrogativi senza risposta, che quando suggerisce interpretazioni fatalmente inclini a un’eccessiva testualizzazione dell’immagine. Inoltre, mentre il ricorrente riferimento a William Blake appare fonte d’ispirazione, sarebbe stato proficuo sfoltire i richiami ai numi tutelari della «divinazione secolare e della decostruzione» (Benjamin, Lacan, Baudrillard, McLuhan, Arendt, Deridda…) e i paralleli, abusatissimi, con Videodrome, Matrix e Star Wars.
Di fondo Scienza delle immagini ingaggia una «critica alla critica dell’ideologia», che talvolta si risolve con troppa facilità nella difesa di luoghi comuni di stampo multiculturale attraverso eruditi confronti interdisciplinari. Ad esempio, l’accostamento tra Gaza City Morgue (2006), foto di Mahmud Hams che ritrae i cadaveri di una madre palestinese e dei suoi bambini, e La peste di Azoth (1630), quadro di Nicolas Poussin, non è che una maniera magniloquente per accusare il sionismo di riprodurre logiche tipiche della secolare tradizione antisemita europea. Al contempo, Mitchell scomoda Poussin per dimostrare che la mentalità dell’iconoclasta, distruttore animato da una concezione politica settaria e totalizzante, è in definitiva solo idolatria repressa. Da parte sua, invece, Mitchell è convinto che sia possibile amare le immagini senza necessariamente diventare idolatri o feticisti. Su questo tema, uno dei capitoli più chiari dell’intera raccolta è quello in cui l’autore biasima l’intransigenza della sinistra radicale nella formulazione fornita dal collettivo Retort (Iain A. Boal, T. J. Clark, Joseph Matthews e Michael Watts) in Afflicted Powers, libro del 2005 sulla relazione tra neoliberismo militarizzato e società dello spettacolo.
Un destino accademico
Scienza delle immagini non è un manuale di cultura visuale, anche se può propiziare l’avvicinamento alla materia; e nemmeno un’antologia con il meglio del lavoro di Mitchell, sebbene possa valere da introduzione al suo pensiero. Benché non sia una lettura sgradevole, Mitchell clona se stesso senza porgere alla visual culture veri elementi di novità, eccetto la voglia di affrancarla dall’etichetta di «pseudoscienza modaiola» e, soprattutto, di impedire che si fossilizzi in «una disciplina accademica precocemente burocratizzata con tanto di uffici, segretarie e carta intestata» – questo, però, è già tardi per evitarlo.