Nella guerra civile libica non si contano ormai più i massacri. L’ultimo, in ordine di tempo, è il bombardamento dell’accademia militare di Tripoli avvenuto sabato notte da parte delle forze di Khalifa Haftar, l’autoproclamato capo dell’Esercito nazionale libico (Lna). Il bilancio è per ora di 35 persone morte, ma sono diversi i feriti gravi.

Il Consiglio di presidenza del Governo di accordo nazionale libico (Gna) di Tripoli riconosciuto internazionalmente – rivale del parlamento di Tobruk, braccio politico dell’Lna – ha subito condannato il raid e, proclamati tre giorni di lutto nazionale, ha promesso che «la risposta contro gli aggressori sarà sul campo di battaglia».

Detto, fatto. Ieri il colonnello Mohammad Qanunu, che risponde agli ordini del Gna, annunciava con fierezza che le sue forze avevano colpito le milizie di Haftar nella base aerea di al-Wattiyah. Secondo il sito libico al-Marsad (vicino al governo di Tobruk), l’attacco sarebbe avvenuto con un drone di fabbricazione turca e avrebbe provocato tre morti.

La situazione è così fuori controllo in Libia che persino l’Unione europea, destandosi dal suo torpore, con il suo Alto Rappresentante per la politica estera Josep Borrell ha fatto sapere ieri che «un’escalation di violenza a Tripoli potrebbe essere imminente» e ha invitato perciò le parti rivali libiche a trovare una soluzione politica.

Parole che lasciano il tempo che trovano perché in Libia da tempo non si parla più la lingua della diplomazia. Nelle stesse ore in cui Borrell parlava, infatti, l’emittente satellitare al-Arabiya riferiva che le milizie di Misurata (alleate del Gna) si ritiravano da Sirte lasciando campo libero all’esercito di Haftar che prendeva così possesso della base aerea di Qadabiya, della Porta 20 e dell’area sud-orientale di Sirte, incluso il Quartiere 3.

Senza dimenticare poi che domenica il presidente turco Erdogan ha annunciato l’inizio del dispiegamento delle sue forze militari in Libia dopo l’ok del parlamento turco ottenuto la scorsa settimana.

Erdogan, sempre più ingolosito da sogni neo-ottomani, ha provato però a tranquillizzare la sua opinione pubblica sugli schermi della Cnn Turk: «Il dovere dei nostri soldati lì è coordinarsi», il loro obiettivo quindi «non è combattere» ma «sostenere il governo legittimo (del Gna) ed evitare una tragedia umanitaria».

Il “sultano” ha poi precisato che la Turchia non dispiegherà le sue forze combattenti: «Adesso avremo differenti unità», ma non ha fornito ulteriori dettagli.

Un silenzio non casuale che rende sempre più verosimile l’indiscrezione dello scorso mese del portale Middle East Eye secondo cui in Libia sarebbero arrivati dalla Siria il gruppo Sultan Murad (formato da combattenti turkmeni-siriani), le Brigate Soqur al-Sham e quelle del Faylaq al-Sham (vicine alla Turchia).

Il coordinamento Ankara-Tripoli continua anche dal punto di vista diplomatico. Ieri il premier del Gna al-Sarraj ha incontrato in Algeria il ministro degli esteri turco Cavusoglu per discutere del dossier libico alla presenza degli algerini che, come pure i tunisini, hanno detto nei giorni scorsi di non voler mandare le proprie forze in territorio libico.

Previste a partire da domani 8 gennaio tre visite nell’area del ministro degli esteri italiano Di Maio: la prima al Cairo, la seconda ad Algeri e l’ultima a Tunisi. Si discuterà di Libia dove l’Italia vuole ritagliarsi un ruolo da protagonista.

«La guerra e la violenza non sono soluzioni – ha scritto ieri il ministro sul suo account di Facebook – Ora è il momento di scommettere sul dialogo, sulla diplomazia e sulle soluzioni politiche».