Restando piantato nei luoghi dell’ovest, fatti di fiordi profondi, paesini isolati e schiacciati tra l’acqua del mare e la montagna, sotto piogge intense, inverni lunghi e bui dove il sole fatica a penetrare, Jon Fosse in Mattino e sera (traduzione di Margherita Podestà, La nave di Teseo, pp. 152, euro 16,00) si interroga sulle questioni fondamentali dell’esistenza. Agli occhi di un lettore norvegese, che riconosce i tratti dei quei luoghi, dei suoi abitanti taciturni, delle vite semplici e in passato molto povere, Fosse emerge come un tipico «vestlandsforfatter», uno scrittore dell’ovest che incarna i suoi luoghi di provenienza e ne trae ispirazione. Ma a un lettore italiano, estraneo al mondo che si iscrive così potentemente in questa opera, nei suoni, nella luce, nelle immagini, Jon Fosse apparirà prima di tutto come uno scrittore che attraverso la lingua e le trame scremate e minimali riesce a toccare temi che ci riguardano tutti.

Nella traduzione succede, qui, quello che dovrebbe sempre accadere: il testo guadagna una nuova vita, un’altra vita, perdendo i suoi tratti locali. Si smarriscono, certo, i dettagli della lingua, che non è il norvegese più diffuso – il bokmål – bensì il nynorsk, la lingua minore e anche marginale più vicina all’antico norreno, ma altri tratti minimali dell’originale si ritrovano nell’incontro con l’italiano così lontano, riuscendo a far emergere qualcosa di essenziale che altrimenti non sarebbe, forse, stato possibile evidenziare.

Mattino e sera è un romanzo breve sull’entrata e l’uscita del protagonista Johannes nella e dalla vita: dall’accoglienza del padre, che lo saluta come chi proseguirà la sua storia diventando pescatore come lui, al suo muoversi nelle faccende di tutti i giorni. La trama, ridotta al minimo, prevede che Johannes ci introduca in una dimensione imprecisata nella quale i tempi si sovrappongono e si mescolano: una sorta di limbo in cui è come se la scansione temporale della vita venisse al tempo stesso annullata e riaffermata, attraverso continui interrogativi su ciò che appartiene al tempo, ciò che ne è dentro e ciò che ne è fuori.

Perché Johannes ricorda proprio ora, in questo tempo fuori dal tempo, quella volta che pescava con l’amico e l’esca non voleva scendere? «Magari Peter ha ragione quando sostiene che forse il mare non vuole più avere nulla a che fare con Johannes, può essere così?» In un flusso continuo di pensieri tradotti in una lingua radicale e concreta nella sua eliminazione del superfluo, nella condensazione e nella ripetizione che diventa ritmo, Fosse ci porta a toccare il senso religioso dell’esistenza e della sua fine.

Una religiosità esplicita
Tutta la sua opera è profondamente mistica, i suoi interrogativi sull’esistenza tendono alla spiritualità, ma a questa accedono tramite la nominazione di ciò che ha una sua solidità semplice e quotidiana. In una intervista apparsa su Morgenbladet qualche anno fa, Fosse diceva di trovarsi, non a caso, «dove il mistico entra nel concreto».
In Mattino e sera la religiosità dello scrittore norvegese si fa più esplicita, quasi biblica, fin dai nomi dei personaggi, Johannes e Peter. Nella prima parte, dedicata alla nascita di Johannes, Dio viene evocato ripetutamente da Olai, suo padre, che coglie la vita terrestre nella sua tensione tra Satana e Dio. Nella seconda parte, dedicata alla morte di Johannes, Peter è tornato a prenderlo per aiutarlo a «disabituarsi alla vita» e portarlo in un luogo dove non esistono le parole, dove non esiste la sofferenza, dove «non esiste nessun tu e io».
Preferisco le pagine di Fosse che precedono quel finale a rischio di risultare sentimentale, deriva estranea al resto del romanzo, dove Johannes cerca nei suoi interrogativi conciliazione ma non perdono. Le parti più belle di questo breve romanzo sono quelle in cui la divinità non viene nominata ma si iscrive nella lingua così pulita, nelle parole così solide, non tanto per ciò che dicono, ma per il loro ritmo, i silenzi, la musicalità e le pause, nella scrittura che si fa religione senza nominarla.

Scrittore estremamente prolifico, autore di romanzi, teatro, saggistica, libri per bambini, Jon Fosse è conosciuto e apprezzato, in Italia, soprattutto come drammaturgo e, sebbene siano poche le opere tradotte, vi si riconosce quella continuità che egli stesso conferma di cercare. Tutti i suoi testi, infatti, a suo dire, si parlano al di là dei generi, si adattano reciprocamente, si sviluppano l’uno nell’altro scambiandosi i temi e andando a formare un’unica grande opera.

La sua voce isolata
Nella parte più francamente saggistica, Fosse riconosce l’influenza fondamentale di Heidegger, la cui filosofia cercava di descrivere «l’esistenza», così come Fosse – tra i migliori del tardo modernismo europeo – cerca di cogliere la struttura fondante della vita.
In un panorama letterario come quello norvegese, piuttosto dominato da un certo realismo spesso focalizzato sulle relazioni familiari, la scrittura di Fosse rimane piuttosto unica, se non perfino isolata. Profondamente poetica è la sua ricerca di ciò che è difficilmente esprimibile, della melodia nelle parole. Chi lo paragona a Ibsen si limita a accostamenti puramente geografici e nazionali, l’ispirazione letteraria più evidente – e anche dichiarata – è invece quella di Beckett: forse più nelle opere passate, tuttavia, mentre di recente si è fatto più forte il suo mettersi in rapporto con la tradizione attraverso l’inserimento nei testi di elementi formali e tematici della letteratura classica.