Nella Repubblica islamica dell’Iran la situazione è esplosiva, e non soltanto per l’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19. Negli ultimi 15 giorni il paese è stato colpito da una serie di vere e proprie detonazioni, alcune delle quali nei tanto contestati impianti che portano avanti il programma nucleare oggetto nell’accordo concluso a Vienna il 14 luglio di cinque anni fa.

L’ACCORDO – NOTO COME JCPOA – non è stato rispettato né dagli Stati uniti (nemmeno durante la presidenza Obama) né dall’Unione europea. Dopo l’imposizione di nuove sanzioni da parte del presidente Trump nel 2018, le autorità iraniane hanno preso tempo per poi decidere di riprendere l’arricchimento dell’uranio, pur dicendosi pronte a tornare ai termini dell’accordo laddove gli altri firmatari faranno fede ai loro impegni.

In Iran il programma nucleare – sempre e solo dichiarato a scopi civili – è il simbolo del nazionalismo. Al tempo stesso, è oggetto di critiche perché sottrae risorse preziose che, in un momento difficile come questo, dovrebbero essere destinate alla popolazione.

Già nel 2007, durante la presidenza dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, la canzone Eshgh-e Sorat (Amore per la velocità, 2007) della band rock iraniana Kiosk recitava: «Non c’è nulla per pranzo e cena, lasciamo che mangino la Yellow Cake», lasciando intendere il prodotto finale dei processi di concentrazione e purificazione dei minerali estratti che contengono uranio.

VENIAMO ALLE ESPLOSIONI di questi giorni. L’ultima risale alle 3:03 della notte tra lunedì e martedì nella fabbrica Oxijen nella zona industriale di Baqershahr, 23 chilometri a sud della capitale Teheran. Secondo il governatore della città Amin Babai, il botto sarebbe dovuto alla «negligenza degli operai mentre riempivano le taniche di ossigeno». Due i morti e tre i feriti, subito ricoverati in ospedale. L’esplosione è stata così forte da distruggere completamente i muri dello stabilimento confinante. Ma non è dato sapere che cosa producesse la fabbrica saltata in aria.

Quella di ieri è stata l’ultima di una serie di esplosioni – anche all’impianto nucleare di Natanz di cui diremo tra poco – che lasciano pensare al complotto straniero. Ipotesi più che plausibile considerati gli attentati israeliani degli scorsi anni ai fisici nucleari in Iran. Dapprima era saltato in aria un serbatoio di gas vicino a una caserma, a est della capitale, e non c’erano state vittime. Qualche giorno dopo, il 30 giugno, una bomba potente era esplosa in un centro medico in un mercato nella Teheran nord e borghese, uccidendo 19 persone e danneggiando gli edifici circostanti. I pompieri avevano dato la colpa alle bombole del gas. Il 2 luglio l’Organizzazione iraniana per l’energia atomica aveva poi reso noto che un «incidente» aveva danneggiato un magazzino in costruzione nel sito nucleare di Natanz, dove i fisici iraniani arricchiscono l’uranio.

In seguito, si è saputo che i danni all’impianto, situato 250 chilometri a sud di Teheran, erano stati «significativi» e i media hanno diffuso le immagini delle porte scardinate dall’esplosione. I danni sono tali da rallentare la produzione delle centrifughe. Venerdì, il Consiglio Supremo della Sicurezza Nazionale ha dichiarato di essere a conoscenza delle cause, senza fornire dettagli «per motivi di sicurezza». E ha ribadito che i macchinari danneggiati saranno sostituiti da altri, di tecnologia più avanzata.

A PREOCCUPARE è anche l’esplosione nell’impianto nucleare di Ardakan a 450 chilometri a sudest di Teheran, dove si produce la Yellow Cake. L’Organizzazione iraniana per l’energia atomica ha dichiarato che «non è successo nulla» e negato che dietro alle esplosioni ci possano essere «elementi contro rivoluzionari». In questo caso, a pensare male non si fa peccato: potrebbe essersi trattato di un sabotaggio informatico.