In questa edizione del Festival dei Popoli viene proposto Mister Wonderland,un interessante documentario di Valerio Ciriaci e dello storico del cinema Luca Peretti, che allarga l’orizzonte della mia ricerca sugli artisti dello spettacolo italiani negli Stati Uniti per includere un personaggio davvero speciale che costruì i luoghi in cui si tenevano questi spettacoli, sulla costa Est: Silvestro Zeffirino Poli. La sua è una storia di emigrazione così speciale e allo stesso tempo paradigmatica da sembrare un’invenzione: dalle colline della Lucchesia alla villa padronale sulla costa del Connecticut, passando per un mestiere di sua invenzione. Il documentario la racconta attraverso le testimonianze di suoi discendenti, il bisnipote Tim che vive in Connecticut e Luana, cantante lirica scozzese-bolognese trasferitasi in Lucchesia e le doverose interviste con uno storico dell’emigrazione, Pietro Biagioni, e due storici americani, Kathryn Oberdeck e Anthony Riccio.

Nelle storie di emigrazione il luogo di partenza non è solo un dettaglio biografico ma anche il modo di spiegare la decisione di andarsene: la provincia di Lucca quindi povertà ma anche un mestiere, quello del «figurinaio», che scolpiva e vendeva statuine di gesso -in seguito anche di cera- da ambulante, in Europa prima e poi ovunque arrivassero i bastimenti. Posso citarvi all’impronta due casi di film muti americani in cui l’italiano è un figurinaio: My Cousin, in cui l’artista emigrato viene interpretato nientemeno che da Enrico Caruso, e The Man in Blue (1926), un piccolo ma interessante melodramma urbano, in cui il boss mafioso calcia via la cesta con le figurine di gesso, perché il figurinaio non paga il pizzo per quell’angolo di marciapiede. Insomma il figurinaio rappresenta una delle più significative e antiche forme di diaspora artistica italiana, per quanto minore, ma Zeffirino Poli seppe fare di meglio.

Dopo aver lavorato a Parigi, al museo delle cere, comprese infatti che i suoi prodotti si prestavano a nuove forme di spettacolarizzazione, che dietro a ogni figurina poteva esserci un racconto. Nel 1872 emigrò negli Stati Uniti (quella dalla Toscana e dal Centro Nord è un’emigrazione che si mosse prima della Grande Emigrazione e in molte direzioni) e sfruttò questa sua intuizione per raccontare (denunciare?) un episodio criminale che coinvolse sette anarchici italiani a Chicago, con uno spettacolo itinerante di cere da lui scolpite. L’investimento ebbe successo e gli permise di iniziare a costruire una serie di teatri, che ospitarono la fase più divertente della storia dello spettacolo, quando varietà, circo, film delle origini, insomma spettacoli d’arte varia avvenivano tutti in uno stesso spazio, e per un costo che permetteva anche a chi non avrebbe mai messo piede in un teatro di Broadway, la possibilità di vedere spettacoli che ebbero per protagonisti Houdini, Chaplin e persino Buffalo Bill. Negli anni Venti questi teatri si fecero sempre più sontuosi, al punto che sarebbero stati definiti movie palaces, e Poli arrivò a controllarne una trentina, firmati spesso da grandi architetti e ornati con un gusto artistico – non solo grandioso- che veniva dalla sua esperienza di figurinaio. Dal varietà passò al cinema, pensando di trasmettere al figlio maschio questo piccolo impero, la più grande catena di sale private– ovvero non controllate dalle majors o dalle grosse catene – ma il figlio morì prematuramente e Poli decise di vendere prima alla Fox e poi alla Loew, ritirandosi a vita privata. Nel documentario il nipote americano visita alcune di queste magnifiche costruzioni, sfavillanti di lampadari in cristallo e stucchi dorati, ornate di affreschi e smalti: una magnificenza che evoca un tempo in cui queste sale si riempivano di migliaia di persone, per la precisione i posti a sedere erano 3.000.

Il documentario intreccia la vicenda di Silvestro Zeffirino Poli con la storia degli emigrati italiani negli Stati Uniti, che non furono certo accolti a braccia aperte, e dei quali il lucchese si interessò come benefattore e «politico» sui generis, se è vero che al suo 50 anniversario di matrimonio ricevette un messaggio da Franklin D. Roosevelt. La sua vicenda dimostra che anche un povero contadino della Lucchesia era portatore di una raffinata cultura visiva, che seppe coniugare con un acuto senso dello spettacolo, con la capacità di fondere la tradizione con un’idea moderna di impresa e di intuire le trasformazioni (interclassiste) del pubblico americano.

Come nel caso degli attori del teatro degli emigrati che lavorarono a Hollywood, o di Amadeo Giannini che fondò la Bank of Italy, che diventò poi la Bank of America e finanziò Hollywood, o come altre mille storie di successo dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti, il loro ricordo si è perso, ma perché? E poi, non capire che l’energia dell’emigrante è una forza davvero speciale, nell’economia e nella società, non è solo assurdo, ma autodistruttivo.