Nel 1975, Ivo Herzog aveva solo nove anni – e la dittatura militare, 11. Ma tanto, quando si nasce sotto una dittatura, poco importa la monocromia dei carri armati e delle uniformi militari, specie se hai un papà vicino per insegnarti a giocare a pallone. E chissà, era forse proprio per il futuro dei figli Ivo e André, e per la moglie Clarice, che il giornalista Vladimir Herzog – direttore del tg per l’emittente pubblica Tv Cultura di San Paolo – conduceva con discrezione la propria vita di iscritto al (proibito) Partito comunista brasiliano, senza che gli fosse mai passato per la testa di entrare in clandestinità, o impugnare le armi contro il regime.

Era settembre quando Vlado, chiamato alla Tv Cultura per provare a recuperare la credibilità del giornalismo, oramai identificatosi con il regime, decise di conferire al tg un’aria di dibattito libero e democratico. Perché no? In fondo il generale Ernesto Geisel, quarto presidente militare dal golpe del 1964, aveva promesso di promuovere l’apertura politica del regime. Herzog finì col credere che alla Censura federale non sarebbe importato se avesse mandato in onda notizie, come ad esempio quelle dal Vietnam. Anche perché, a quel punto, la guerra era ufficialmente finita.

Ma purtroppo si sbagliava. Durante gli anni del regime, non contava ciò che i generali dichiaravano pubblicamente, ma ciò che l’ala dura del regime, con i suoi sostenitori civili, tramava nei sotterranei del potere. Fu a causa della pressione degli sponsor di un tg concorrente, legato a «Tradizione, Famiglia e Proprietà», e di agenti infiltrati dai golpisti nei giornali, nei sindacati, nelle imprese e nei partiti che cominciarono a spuntare ovunque manifestazioni di esagerata indignazione contro la cosiddetta «linea comunista» adottata da Herzog nella tv «Viet-Cultura».

La polizia politica aveva già arrestato dozzine di giornalisti coinvolti nella lotta democratica e ora puntava gli occhi su Herzog.In poco tempo la caccia al topo finì con l’arrivare all’Assemblea Legislativa di San Paolo. Due deputati dell’Arena – partito fantoccio del regime militare – vennero ben istruiti per far precipitare la situazione. Solo così si spiega il tenore dei loro discorsi tenuti il giorno 6 ottobre, 1975. Con grida veementi contro la «comunistizzazione» della televisione di Stato e una valanga di accuse per condizionare il parlamento, i deputati costruirono la giustificazione perfetta per l’arresto del direttore del telegiornale di Tv Cultura.

Non passò molto tempo, e la polizia convocò Vladimir Herzog per una deposizione. Sabato 24 ottobre, il giornalista si presentò spontaneamente al Doi-Codi per dimostrare la sua “buona fede”. Ma al regime poco importavano le buone maniere e, di lì a poco, altri giornalisti arrestati svelarono che Vlado era già stato preso, incappucciato, spogliato e rivestito con una tuta militare. Più tardi sentirono solo le sue grida allucinanti, mentre lo torturavano. Erano così atroci che i boia dovettero alzare al massimo il volume della radio per coprirle. E mentre un radiocronista annunciava l’estrema unzione data al Generalissimo Franco in Spagna, la voce di Vlado andò abbassandosi, fino a spegnersi del tutto. Il giorno seguente venne divulgata una nota alla famiglia e al Paese, in cui si dichiarava che il giornalista Vladimir Herzog si era suicidato. Non solo. Insieme alla nota uscì una fotografia nella quale Vlado appariva in una cella praticamente inginocchiato, con una corda al collo – come se qualcuno potesse impiccarsi a cinque centimetri dal pavimento.

Trentanove anni dopo, questa storia torna sui media – e non solo a causa del 50mo anniversario del golpe militare che ricorre martedì prossimo, 1 aprile – ma in connessione diretta con la Coppa del mondo di calcio. Sì, perché uno dei due politici che proferì il discorso che portò alla prigione, alla tortura e alla morte del giornalista Vladimir Herzog, è nientemeno che José Maria Marin, l’attuale presidente della Federazione calcio brasiliana (Cbf) e del Comitato organizzativo locale, prossimo anfitrione del Mundial 2014. Ivo Herzog, figlio del giornalista ucciso, proprio non riesce a comprendere il silenzio omertoso della Fifa.

Furioso per le accuse, José Maria Marin, che non ha mai voluto rispondere neanche alle nostre domande, ha citato in giudizio il giornalista Juca Kfouri per diffamazione. Kfouri, legato ai movimenti per l’etica nello sport, è uno dei primi firmatari della petizione inoltrata alla Fifa per chiedere le dimissioni di Marin: «È davvero una vergogna per noi ritrovare uno come lui alla cerimonia di apertura della Coppa del Mondo dice Ivo Herzog -, al fianco della presidentessa della Repubblica Dilma Rousseff, perché anche lei e il suo ex marito furono torturati dal regime. Marin non solo denunciò mio padre, quando era deputato, ma un anno dopo la morte di Vlado si esibì in un pubblico elogio nei confronti di Sergio Fleury, l’ufficiale che guidava il Dipartimento di sicurezza politica e sociale, responsabile di uno “squadrone della morte” che torturò, uccise e squartò – e solo occasionalmente viene ricordato come capo della Polizia civile di São Paulo».

Il figlio del giornalista ucciso non si da pace per l’impunità dei crimini della dittatura in Brasile, e lancia un appello alle Federazioni mondiali, ai calciatori e all’opinione pubblica internazionale affinché venga manifestata la propria indignazione alla Fifa. «Avere José Maria Marin come anfitrione della Coppa del mondo 2014 in Brasile – sostiene Herzog – è un po’ come se Erik Priebke fosse stato il patrono di Italia ’90».