Il cosiddetto «decreto clima» è un insieme di incentivi il cui effetto sul clima – cioè il taglio di emissioni di gas serra – è assolutamente marginale. Oltre la metà dei fondi disponibili è destinata alla promozione della mobilità pubblica e per l’acquisto di biciclette, il che è di per sé condivisibile, ma è ben lungi dal delineare una politica coordinata oltre a non essere quantitativamente significativo. Le parti qualificanti della proposta iniziale – un comitato interministeriale sul clima per valutare l’effetto sulle emissioni delle diverse politiche e misure e il ruolo del Cipe per armonizzare la strategia nazionale sul clima, in corso di elaborazione, con la programmazione economica – e la progressiva riduzione dei sussidi alle fossili, rimandata alla legge di bilancio, sono stati estromessi dal testo finale.

Questi aspetti per così dire «istituzionali» sarebbero stati in effetti una svolta e la questione di un «governo delle politiche» mirate agli obiettivi climatici rimane un tema irrisolto. Ci possono essere ovviamente diverse soluzioni, ma la proposta annunciata è stata soppressa, dunque siamo a zero.

Prendiamo la misura più importante, i 255 milioni destinati all’acquisto di bici e abbonamenti per chi rottama ciclomotori a due tempi e auto fino a Euro 3 (ma già in alcune città si proibiscono gli Euro 4): che effetto potranno avere? Non sappiamo se il ministero abbia fatto una stima sul taglio della CO2 legata al decreto: questo andrebbe fatto su tutte le misure di tutti i ministeri che hanno impatto sulle emissioni di gas serra, e il ministero dell’ambiente dovrebbe dare l’esempio allegando una valutazione trasparente dei decreti.

Per una stima dell’ordine di grandezza, possiamo valutare che in media eliminare dalla strada un’automobile significa tagliare 1 tonnellata circa di CO2 all’anno, dunque stiamo parlando di un ordine di grandezza di 170 mila tonnellate di CO2 (supponendo nulle le emissioni da mezzi pubblici usati in alternativa, il che ovviamente non è) rispetto ai quasi 428 milioni di tonnellate emesse nel 2017. Dunque, se «la nostra casa brucia» – per dirla con Greta – il governo ha approvato l’acquisto di un piccolo innaffiatoio da balcone.

Del resto, il contesto generale delle politiche italiane sul clima è deprimente: mentre le emissioni di gas serra che sono in controtendenza e nel 2019 tornano a crescere, anche per il blocco delle rinnovabili di questi anni, il governo italiano non vuole firmare la lettera degli otto Paesi europei che chiedono maggiore ambizione per gli obiettivi 2030 (taglio del 55% sul 1990). Allo stesso tempo, il ministro Patuanelli difende l’attuale proposta di Piano energia e clima, mero
aggiornamento della Strategia Energetica Nazionale di Calenda, che è troppo poco ambiziosa e che mantiene il gas naturale al centro della strategia: con questa sarà impossibile azzerare le emissioni di CO2 al 2050, obiettivo dichiarato dal governo.

E’ di questi giorni la notizia che in Svezia è stata bocciata l’autorizzazione a un nuovo terminale di Gnl (gas naturale liquefatto) sulla base di considerazioni climatiche: se il gas naturale è meglio del carbone, rimane una fonte fossile e dunque bisognerà progressivamente ridurne l’utilizzo. Se, invece, si continuano a costruire nuove infrastrutture per il gas di fatto si stanno creando futuri «stranded asset», investimenti poi non recuperabili. Se poi i «gas rinnovabili» – come il biogas o gas di sintesi a partire da energia solare – avranno un ruolo, le infrastrutture esistenti bastano e avanzano.

L’Eni, la più importante industria nazionale del settore, attivamente impiegata in una campagna di comunicazione «sostenibile«, è in realtà uno dei principali ostacoli a tradurre gli obiettivi di una seria politica climatica in politica industriale. L’altro grande assente è Fca, in netto ritardo sugli investimenti necessari all’auto elettrica. Nel frattempo, il governo sul clima fa solo propaganda.