Il sostegno russo a Bashar Assad è «destinato al fallimento» prevedeva, o meglio si augurava, l’altra sera Barack Obama commentando il maggiore coinvolgimento militare di Mosca in Siria. Forse il presidente americano, che dopo il 2011 ha ordinato di addestrare e finanziare milizie ribelli presunte “moderate” (dove sono sul terreno?), si sente più tranquillo sapendo che i jihadisti e l’Isis si sono spinti di nuovo fino alle porte di Damasco. Con effetti devastanti. Undici persone, in buona parte civili, sono state uccise venerdì da razzi sparati sul quartiere di Duwaylaa, alla periferia sud-est della capitale siriana. Almeno altre 20 sono rimaste ferite. Il bilancio lo ha fatto l’Osservatorio siriano per i diritti umani, una Ong vicina all’opposizione. Mosca non è rimasta in silenzio. «La critica alla linea coerente della Russia sui temi siriani è un tema assolutamente non nuovo», ha replicato Dmitri Peskov, portavoce del presidente russo Putin. «Nessuno – ha aggiunto – ha saputo spiegare finora in modo sensato quale possa essere l’alternativa alla vigente, legittima amministrazione siriana nel garantire la sicurezza nel Paese, nella lotta contro la diffusione dell’Isis e nel garantire l’unità del paese».

 

I bombardamenti su Damasco lanciati dai miliziani jihadisti di Jaish al Islam, insediati nella regione di Ghouta, sono frequenti. Raramente vengono riferiti dai media internazionali che, al contrario, riportano puntualmente morti e feriti causati dai raid dell’aviazione governativa che, secondo i dati di Medici Senza Frontiere, avrebbero ucciso il mese scorso 377 persone. Le stragi di civili compiute dai “ribelli” non filtrano. Ben poco si sa, ad esempio, della condizione dei 50mila abitanti di Kefraya e al-Fuaa, due cittadine siriane a maggioranza sciita nella provincia di Idlib. Da settimane sono sotto assedio del Jaish al Fateh, la coalizione di forze islamiste sunnite, guidate da al Nusra (al Qaeda), che prima dell’estate ha preso il controllo completo di Idlib. Kefraya e al Fuaa pagano per i successi che l’esercito governativo e i combattenti sciiti di Hezbollah hanno ottenuto a Zabadani, città strategica vicina al Libano ritornata in gran parte sotto il controllo di Damasco dopo settimane di combattimenti durissimi.

 

Sotto il fuoco di ribelli e governativi, i civili siriani non possono far altro che scappare e cercare rifugio in altri Paesi. Non quelli del Golfo che continuano a tenere chiuse le loro frontiere anche se l’Arabia saudita, bersaglio di pesanti critiche, nega di aver chiuso la porta in faccia ai profughi. Afferma di aver accolto 2,5 milioni di siriani. Realtà o fiction? Le agenzie dell’Onu e varie Ong internazionali non hanno mai registrato questo flusso enorme di profughi verso la più potente delle sei petromonarchie del Golfo. Riyadh sostiene di averli accolti come lavoratori, non come rifugiati e molti di questi se ne sarebbero già andati via. Alcune centinaia di migliaia inoltre avrebbero ottenuto lo status di residente e 100mila ragazzi siriani studierebbero nelle scuole saudite. Difficile credere ai dati forniti da un Paese che, per combattere la sua guerra a distanza con l’Iran, ha alimentato in segreto il conflitto interno siriano con armi e finanziamenti per i “ribelli” (Tehran invece aiuta Damasco). Non sono meno responsabili gli altri regni del Golfo che accampano scuse – persino il clima troppo caldo per i profughi – per giustificare la chiusura delle frontiere. Amnesty International, in un suo recente rapporto, ha messo in rilievo come Kuwait, Oman, Bahrain, Arabia Saudita, Emirati e Bahrain non hanno garantito l’accoglienza a nessun profugo nonostante la loro ricchezza.