Un viso dolce, una figura minuta. Non ti aspetteresti tanta combattività in una donna di appena 32 anni ferita dalla vita, complice una brutta malattia neurodegenerativa (la paraparesi spastica) che l’ha costretta all’invalidità. Ma Eleonora De Martino vuole vivere, lavorare, crescere il suo bambino di undici anni come tutte le altre donne d’Italia. Nonostante ostacoli che non sono solo quelli delle barriere architettoniche.

Una storia al femminile, il racconto di una ragazza che, su segnalazione dell’assistente sociale, viene inserita nel progetto L.È.A. – Lavoro è autonomia. Un anno di impiego alla Misericordia di Certaldo, sei ore al giorno, 30 ore settimanali. Stipendio: solo 300 euro, per un lavoro considerato alla stregua di uno stage. «Come si fa ad essere autonomi con 300euro al mese?». L’interrogativo ha più di un fondamento, la risposta resta nel vento.

Eleonora riceve poco più di 600 euro di pensione di invalidità, così quei 300 euro del L.È.A. sono fondamentali per far quadrare i conti del proprio, magro, bilancio familiare. «Quando facevo servizio civile – racconta – guadagnavo cento euro in più». La ragazza è andata a lavorare nei dintorni di Pisa, a Navacchio, alla Acorn Montascale, ma nelle sue condizioni di salute era molto faticoso fare ogni giorno cento chilometri tra andare e tornare a casa, e dopo due mesi di prova è anche arrivato il benservito.

Alla Misericordia di Certaldo, Eleonora è stata assunta dopo un colloquio, ha a disposizione tre giorni di permesso al mese per i controlli medici. «Fin quando la salute me lo ha permesso – spiega – sono riuscita a concentrare tutte le cure in quei tre giorni. A dicembre però mi sono ammalata. Ho avuto un blocco muscolare, con dolori terribili, tanto che non riuscivo nemmeno a stare in piedi».

Nel momento più difficile, un’amara scoperta: se non lavora non viene pagata. Sembra che il L.È.A. non preveda nessuna indennità di malattia. «Eppure ho un certificato medico che segnala la mia impossibilità ad uscire di casa. Semplicemente non posso muovermi». Nel danno la beffa: «Ha telefonato la mia tutor dicendo che se volevo il 100% dello stipendio, dovevo per forza di cose tornare a lavoro».

L’arrabbiatura è stata forte, a ripensarci Eleonora ha ancora un tremito nella voce: «La volontà ci sarebbe, ma contro la malattia c’è poco da fare. Mi hanno fatto anche delle infiltrazioni, mi mancava il respiro da quanto erano forti i dolori. Sono rimasta ferma una settimana, sono dovuti intervenire i miei genitori e mi hanno trasportata a casa loro. Per assistermi». Eleonora non ci sta, protesta, scrive agli amministratori e ai politici locali: «Mi è mancata solo la lettera a Babbo Natale, le ho tentate davvero tutte». Nessuno le ha risposto. In compenso il rientro a lavoro non è stato facile. Ora Eleonora ha paura, teme il mobbing. Le 300 euro per un mese sono diventate in busta paga 225. Ciliegina sulla torta acida: «Mi hanno avvisata che potrebbero non rinnovarmi la ‘collaborazione’ per problemi di fondi. E pensare che questi finanziamenti dovrebbero servire ad aiutare il reinserimento nel lavoro delle persone svantaggiate. Non posso certo smettere di curarmi. Ho cercato di spiegare alla tutor la legge 104, ma ho avuto l’impressione che fosse fiato sprecato».

La valvola di sfogo per Eleonora è stato lo studio, le mancano due esami alla laurea. «Come me ci sono altri 400 ragazzi e ragazze in Toscana. Molti di loro non hanno le capacità di far valere i propri diritti, di ribellarsi alle ingiustizie. Sarei una sovversiva? No, chiedo solo rispetto. Mi sto ammalando perché non mi permettono di restare a casa il tempo necessario per curarmi, ho un figlio a carico, un mutuo da pagare perché ho dovuto ristrutturare la casa popolare dove vivo per renderla abitabile».

Il lavoro di Eleonora è quello di rispondere al telefono ai tanti utenti della Misericordia, deve prenotare servizi, inserire dati nel sistema. Un lavoro a tutto tondo, all’interno di un progetto – il L.È.A – che fa parte dei Servizi di accompagnamento al lavoro per persone disabili e soggetti vulnerabili, ed è finanziato dalla Regione Toscana attraverso il Fondo sociale europeo con circa 14 milioni di euro su tutto il territorio. Al di là della commistione fra fondi pubblici e strutture private, resta il fatto che non potersi permettere di stare male quando si lavora è una situazione kafkiana.