Tanti si chiedono se quella scoppiata a Baghdad il primo ottobre 2019 sia stata una rivoluzione. Il sistema politico iracheno è ancora lì, scalfito ma granitico. In apparenza. Perché dalle proteste l’Iraq è uscito trasformato nella sua capacità di immaginarsi al di là della guerra permanente e globale, che ha occupato le vite degli iracheni nel settembre 1980, contro l’Iran del primo khomeinismo, e che è esplosa in tutta la sua potenza distruttrice con l’operazione Desert Storm dieci anni dopo.

Chi ha trasformato piazza Tahrir, riempiendone di senso il nome, piazza della Liberazione, sono stati i giovani iracheni. Ventenni, trentenni, per cui la prima guerra del Golfo è custodita nel racconto dei genitori ed è viva nelle conseguenze economiche e sociali. Un embargo feroce, sanzioni punitive e una seconda guerra americana che ha dato il là a un sistema politico in cui al posto di un Saddam ne sono sorti cento.

L’Iraq di oggi sono tante cose: è un paese dalle istituzioni settarie, come imposto dall’occupazione Usa del 2003; è un paese seduto sulle quinte riserve al mondo di petrolio eppure tra i più poveri del Medio Oriente; è un campo di battaglia altrui. È anche un paese, però, che tra 2019 e 2020 ha saputo ribellarsi alla povertà strutturale, con parole d’ordine progressiste e una lotta di classe politica e socio-economica.

È il paese delle milizie sciite che dettano legge nei quartieri e le città, mai realmente assorbite dall’esercito ma rispondenti a logiche settarie e poteri affatto in ombra; ma è anche il paese in cui donne e uomini, cristiani e musulmani, studenti e disoccupati, hanno per la prima volta contestato un sistema retto su prebende, corruzione e nepotismo, un peso massimo che ha sbriciolato i miliardi di dollari destinati alla ricostruzione.

Oggi gli iracheni vivono la peggiore crisi economica degli ultimi 20 anni: Baghdad non ha più soldi. Il barile si vende a prezzi irrisori, un’ancòra che trascina giù (il 90% del bilancio dipende dal petrolio); il dinaro si svaluta, i prezzi si impennano. Ogni mese servono 5 miliardi per pagare gli stipendi pubblici e 2 per i servizi essenziali, ma le entrate non superano i 3,5 miliardi. Il debito attuale si aggira sugli 80 miliardi di dollari.

L’Iran – che gli gira gas per l’elettricità – ha tagliato i rifornimenti perché gli iracheni non pagano. E Baghdad si spegne, ore e ore senza luce, un dramma in piena pandemia. Gli ospedali sono già al collasso, del sistema sanitario gratuito e di qualità del primo partito Baath (quando l’Iraq aveva addirittura un’industria farmaceutica di Stato e studenti di medicina arrivavano da tutto il mondo arabo) non c’è più traccia, devastato da embargo e sanzioni dopo il 1991 e oggi da corruzione, mala gestione e di nuovo dalle sanzioni, stavolta contro Teheran, principale partner commerciale iracheno.

Il lavoro, poi, è una chimera: se il 40% della popolazione dipende dagli stipendi del settore pubblico (triplicato dal 2004, rapido moltiplicatore di consenso e cestino di voti), buona parte degli iracheni vive alla giornata, se non lavora la sera non mangia.

Ecco perché il 60% di loro vive sotto la soglia di povertà, meno di sei dollari al giorno. Tra loro ci sono precari, operai, contadini del sud – delle paludi e dello Shatt al-Arab, l’incontro tra i due fiumi – in fuga dalla siccità e la desertificazione dovute al furto turco alle sorgenti di Tigri ed Eufrate.

E sono per lo più ragazzi, l’Iraq è un paese giovanissimo: il 57% degli iracheni ha meno di 24 anni. Non sanno cosa sia stata la prima guerra del Golfo, la metà di loro non c’era nemmeno per la seconda. Hanno vissuto guerre diverse, quella contro lo Stato islamico e quella per procura tra Iran e Stati uniti.

E vivono ogni giorno una guerra di sopravvivenza: hanno studiato, conoscono le lingue, sono in contatto con il mondo e hanno cercato di esportare fuori dal portone di casa le loro idee, queste sì rivoluzionarie. Uguaglianza sociale e di genere, dignità, lavoro, laicità, libertà di espressione.

La rivolta di ottobre – capace di contagiare subito il sud sciita (Bassora in prima fila, la città delle proteste estive contro disoccupazione e black out elettrici mentre le compagnie straniere esportano energia dai suoi giacimenti) – è in stallo, cristallizzata dal Covid e dalla repressione sanguinaria. Tahrir è stata sgombrata, nei mercati di Baghdad sono tornati gli ambulanti ma non ci sono i clienti. L’inflazione li ha cacciati: i ristoranti chiudono perché il costo dei prodotti alimentari è salito alle stelle, l’antico mercato di Shorja non conosce affollamento. Ma il nuovo Iraq sogna ancora se stesso.