Un regista che cerca casa al Cairo, impresa quasi impossibile, mentre lavora al suo film. Una storia d’amore finita, le guerre, l’Iraq, il Libano, partire, restare, il cinema di chi vive in questi paesi che diviene sempre dibattito politico. È un esordio sorprendente quello di Tamer El Said con In the Last Days of City. Nouvelle vague e ispirazione del migliore cinema egiziano – la lezione di Chahine – nel cogliere i dettagli della realtà, volti, strade, miseria, rivolta. Siamo nell’Egitto di Mubarak, che sta per cadere, ma potremmo essere oggi in quello dei suoi generali che massacrano studenti e voci critiche.

Khalid, il protagonista, visita appartamenti tutti molto brutti. E intanto cerca le sue storie sui volti e nei racconti dei suoi personaggi, una donna che insegna performance, una ragazza che ha perduto il padre in un incendio ed è ancora segnata da questo dolore.La madre malata che ricorda suo padre, il loro incontro, il passato e fatica a parlare ancora davanti al suo obiettivo. Qualcosa non torna però come nelle case in cui lo conduce ogni giorno, uno strano faccendiere.

Sono scassate ci trova polli, galline, sulle ascensori appena partono comincia a suonare la musichetta con la preghiera: Allah è grande. I suoi due migliori amici, anche loro cineasti vivono a Bagdad. Uno si è rifugiato in Germania, l’altro ha scelto di rimanere, non potrebbe fare nulla lontano dalla città. Il Cairo è per loro e per un altro amico libanese un punto di riferimento nonostante tutto, i suoi conflitti e la sua durezza.

E anche in questa contrapposizione, restare o partire, nella rivendicazione di un’appartenenza c’è molto di quella poetica che attraversa il cinema egiziano e non solo. E dalla dimensione personale passa inevitabilmente a quella collettiva, al presente di un conflitto che si estende ogni giorno di più e che non sembra lasciare spazi possibili. La Primavera si è disciolta in un nuovo regime, tollerato perché si oppone al terrorismo. Ma si può combattere per la democrazia usando le dittature? Non so se il film si chiede questo ma certo il regista entra nelle disillusioni di un passato recente che visto a distanza appare ancora più profetico. La realtà è dura, violenta, punteggiata da discrepanze e da conflitto.

E la scelta di mescolare diversi piani narrativi, di confondere «finzione» e «realtà», una linea solo apparente, dà al film una tensione e l’energia formale della sorpresa, una poetica politica senza proclami, con sussurrata lucidità.