E’ un pomeriggio d’agosto del 1979 e il narratore quarantaquattrenne di American Dust, il romanzo di Richard Brautigan, riproposto da minimum fax in una evocativa traduzione di Luca Briasco (pp. 129, euro 16,00) se ne sta «con l’orecchio premuto sul passato, come se fosse il muro di una casa che non esiste più», a ripensare alla sua infanzia, sgretolatasi «come una rovina dell’antica Roma», dopo che un colpo di fucile nel meleto era stato sparato il 17 febbraio del 1948. È la fine dell’estate 1947 e lo stesso narratore, un ragazzino solitario soprannominato Whitey, osserva affascinato un furgone carico di mobili polverosi arrancare lungo la riva di un lago, all’imbrunire. È una mattina di primavera del 1940 e il piccolo Whitey guarda dalla finestra il funerale di un ragazzino, pensando che non vuole «per nessuna ragione al mondo far la fine di quel povero bambino sfortunato».

Una patina malinconica

Questi i piani temporali che si intersecano nel romanzo, mentre nella mente del lettore scorre un’altra data, quella domenica pomeriggio del 16 settembre 1984 in cui Brautigan si uccise con un colpo di fucile alla testa, al secondo piano della sua casa di Bolinas, in California, dove trascorreva i giorni in preda alla depressione e all’alcolismo.

La voce idiosincratica del narratore rievoca l’America della crisi e del dopoguerra, e nel farlo restituisce allo scorrere del tempo la sua fluidità asimmetrica, mentre il palinsesto degli anni si sfalda, le date si accavallano e si rincorrono nella memoria, così che ogni momento può dilatarsi all’infinito. Per questo bisogna procedere con attenzione: «Non volevo incespicare sul passato per poi rompermi una gamba nel presente e rischiare di rimanere zoppo in futuro».

«Prima che il vento si porti via / Questa polvere… polvere americana»: il refrain che scandisce il deflusso del tempo nel romanzo ha fornito l’ispirazione per il titolo italiano. La «polvere americana» che ricopre ogni cosa di una patina malinconica si insinua tra le pieghe del tempo, resiste al vento e alla guerra, anche se paradossalmente, come scrive Briasco nella postfazione, «a farla volar via non saranno le tempeste o la crisi, ma il benessere».

«Ero così felice che la guerra fosse finita», afferma amareggiato il narratore nelle ultime pagine, consapevole che a fargli perdere per sempre l’innocenza sarebbe bastata una scatola di munizioni acquistata d’impulso al posto di un hamburger.

Influenzato dal genere Shishosetsu, il «romanzo dell’io» di derivazione giapponese, Brautigan si è ispirato a una vicenda della propria infanzia per raccontare la storia di Whitey e della sua violenta iniziazione alla vita. Tuttavia, lo spunto semi-autobiografico non è il nucleo del romanzo, tanto che inizialmente l’autore aveva pensato di intitolarlo The Pond People of America, per poi scegliere invece So the Wind Won’t Blow It All Away – titolo forse ispirato a una coinvolgente canzone dei Kansas, Dust in the Wind, il cui ritornello mette l’accento sulla caducità della vita. Nella scena finale del libro Whitey osserva un uomo e una donna di «centoventi chili a testa» che scaricano dal furgone in riva al lago un vecchio divano, una poltrona imbottita, tavolini, lampade a cherosene, una sedia a dondolo e una stufa: che male c’è, pensa, se vogliono star comodi mentre pescano di notte, seduti a parlare delle persone che la crisi si è portata via?

Un simile salotto a cielo aperto è rappresentato nella fotografia di Roger Ressmeyer riprodotta sulla copertina della prima edizione americana, uscita nel 1982 tra l’indifferenza quasi generale della critica. Brautigan voleva rievocare la vita della «gente di lago» americana, quei reietti descritti nel romanzo «il cui stile di vita era già condannato mentre lo praticavano» e la cui «dignità» e «indipendenza» l’autore ha tenuto a sottolineare in una breve presentazione del libro, citata anche nella postfazione.

Il bambino rappresentato nell’illustrazione di Patrizio Marini nella suggestiva e elegante copertina della edizione attuale mette invece l’accento sulla solitudine del narratore: è seduto di spalle, in riva a un lago, col fucile in mano – reduce forse da una guerra privata, interiore – su una banchina che rimanda ai colori della bandiera americana (ma anche alla ferita mortale inflitta per errore al suo amico David, che «sembrava una specie di bandiera liquida posata sulla sua gamba») – una bandiera a cui però mancano le stelle. Il cielo, infatti, è di un grigio uniforme: «Quando scende la notte, non c’è modo di fermarla».

Inventività e affabulazione

Nonostante il senso di ineluttabile caducità che pervade ogni pagina, American Dust celebra l’energia dell’affabulazione, l’inventività immaginifica del narratore, il suo linguaggio avvezzo tanto all’introspezione quanto alla forzatura della tall tale. La metafora spericolata, il commento all’apparenza ingenuo, i dialoghi surreali, spiazzano il lettore facendolo sorridere, ma colpiscono immancabilmente nel segno. La traduzione di Briasco riesce a cogliere con sorprendente efficacia la «buffa leggerezza» dello stile di Brautigan – quelle frasi soffuse di una delicatezza quasi romantica che sfuma la malinconia del racconto – restituendo al lettore italiano la voce di un bambino-adulto capace ancora di sognare davanti alla miseria, alla vecchiaia, alla solitudine, alla morte.

Brautigan è stato accostato a Carver per le frasi brevi ma dense e per le comuni influenze letterarie; egli stesso ha citato Twain, Hemingway e Crane tra i classici americani più importanti per la sua formazione. Pur restando lontano dai labirinti autoriflessivi della letteratura postmodernista, nel romanzo c’è sicuramente un’eco del primo Barth, quello dell’Opera galleggiante, e delle iperboli narrative di Barthelme. Ma il Brautigan di American Dust rimanda amche a un Vonnegut elegiaco, quasi lirico (del resto, è stato proprio Vonnegut a presentarlo all’editore Delacorte Press), forse più maldestro e introspettivo, ma di certo altrettanto fiero di essere fuori moda, fuori posto, fuori tempo.