La visione non è un fenomeno meccanico ma un’azione complessa che il soggetto compie attraverso le proprie facoltà sensoriali e intellettive entro una cornice sociale, culturale, ideologica, etnica, sessuale, ecc. E le immagini, grazie alle tecnologie digitali, proliferano e oggi con una rapidità prima impensabile. A partire dalla metà degli anni novanta, alcuni studiosi, soprattutto anglosassoni, hanno analizzato l’accresciuta forza e rinnovata valenza – il nuovo statuto mediale – delle immagini con un approccio diverso da quello delliconologia, svincolandosi dalle tradizionali competenze della storia dell’arte; da questa attenzione è scaturita una nuova scienza delle immagini, interessata ai rapporti tra produzione e consumo della visualità. È nata così la «cultura visuale», termine che attualmente designa «qualsiasi ricerca che prenda in esame il ruolo e le funzioni delle immagini (artistiche e non) in un dato spazio-tempo e per una certa cultura o sub-cultura» (Pinotti).
Lo studioso americano Nicholas Mirzoeff (1962) è stato tra i primi a organizzare un quadro sistematico della disciplina, curando nel 1998 un’antologia, The Visual Culture Reader, e poi scrivendo nel 1999 una Introduzione alla cultura visuale, edita in Italia nel 2002. Esce ora un saggio del 2015 intitolato Come vedere il mondo (Johan & Levi, pp. 220, € 23,00, traduzione di Rossella Rizzo). La pretenziosità disarmante del titolo non è moderata dalla postilla: «un’introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora)». Il libro si propone come chiave per comprendere le trasformazioni che hanno investito l’«iconosfera», ossia il mondo della visione, negli ultimi due secoli e in particolare negli ultimi trent’anni. Non è storia né metodologia, bensì un insieme di temi concernenti oggetti, dispositivi e pratiche legate alla visione: vedere, «disvedere» e visualizzare il territorio, la città, il corpo, se stessi, la guerra, il clima. Naturalmente, la cultura visuale «non è la mera somma di ciò che è stato prodotto per essere visto, come i quadri o i film. È la relazione tra il visibile e i nomi che diamo a ciò che vediamo; comprende anche quanto è invisibile o tenuto nascosto alla vista».
L’autore dichiara il proprio debito di riconoscenza a John Berger, paga più di un tributo a W.J.T. Mitchell, grande vecchio degli studi visuali, e cita in ordine sparso un po’ tutto il pantheon del moderno intellettuale progressista: Benjamin, Foucault, Lyotard, Deleuze, Butler e anche Duchamp. Qua e là, cenni di critica postcoloniale, questioni di genere, teoria e storia dei media, scienze cognitive e neuroscienze: l’orizzonte degli cultural studies. Eppure, Mirzoeff presenta quello che dovrebbe essere l’ovvio assunto di partenza – la complessità del dato visuale – come acquisizione finale di un discorso la cui varietà di spunti è non tanto un modo per cogliere nessi e significati inattesi, quanto un espediente narrativo per sedurre il lettore risparmiandogli la fatica di fermarsi ad approfondire. Così si passa dallo scioglimento delle calotte polari alla Primavera araba, dai paesaggi di Turner e Monet al calo demografico dei piccioni migratori, da Obama a Velázquez, dai locali gay della New York anni novanta all’apartheid sudafricana, da von Clausewitz a Colin Powell… È chiaro che tanto ritmo e stringatezza servono ad accattivarsi un pubblico non necessariamente specializzato, ma giovane, urbano e interconnesso. Tuttavia, in questo modo Mirzoeff offre il destro ai nemici della cultura visuale che considerano la sua multidisciplinarietà come il pretesto con cui alcune cricche accademiche giustificano il proprio arrivismo.
Sullo sfondo riecheggia il mantra postmoderno del cambiamento, inteso quale processo continuativo e inarrestabile che conviene assecondare piuttosto che contrastare. «La cultura visuale è un impegno a produrre attivamente il cambiamento, non soltanto un modo per vedere quanto accade intorno a noi». Qui Mirzoeff scopre il senso politico del suo lavoro. «Nel 1990 potevamo usare la cultura visuale per criticare e contrastare il modo in cui eravamo rappresentati nell’arte, nel cinema e nei mass media. Oggi possiamo servirci attivamente della cultura visuale per creare nuove immagini di noi stessi, nuovi modi di vedere ed essere visti, e nuovi modi di vedere il mondo. È questo l’attivismo visuale. L’attivismo visuale è un’interazione di pixel e azioni reali allo scopo di generare il cambiamento».
Purtroppo l’attivismo predicato da Mirzoeff si esaurisce in un invito a prendere coscienza che, siccome esiste una correlazione d’influenza reciproca tra immagine e realtà, l’uso dei social media («tutti i media sono social media») in una società globale sempre più mediata dagli schermi e dipendente dalle reti informatiche diventa un modo per re-immaginare il mondo.
Il climax di questo ottimismo retorico è nella discussione sul selfie. Mirzoeff spiega che il selfie, evoluzione democratica dell’autoritratto, stravolge il concetto di autorialità sviluppandola attraverso strumenti precostituiti. In base alle statistiche, inoltre, risulta essere una pratica prevalentemente femminile che funziona meglio con Snapchat che su Facebook. Per il resto, Mirzoeff sembra convinto che il selfie sia immune a forme di reificazione dello sguardo maschile, o al narcisismo, e sorvola sul conformismo scambiato per libera espressione individuale. Il dilagare dei selfie è soltanto il gioioso esito del desiderio di comunicare e condividere la propria immagine. Ma non aspettatevi un selfie dell’autore nel risvolto di copertina