Tre generazioni, tre donne, tre maschere della resilienza femminile sono al centro di Notte di battaglia (traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, pp. 215, € 19,00), l’ultima tragicommedia della scrittrice canadese Miriam Toews, che torna ad attingere alla vena autobiografica grazie alla quale è diventata  una delle voci più interessanti della scrittura canadese contemporanea. Dopo Donne che parlano, in cui ricostruisce il dramma e il caso giudiziario di otto donne drogate e stuprate in una comunità  mennonita della Bolivia, Toews recupera il tema a lei caro dei rapporti interfamiliari, quelle nevrotiche e spesso esilaranti relazioni parentali che, con sagacia e autoironia, aveva già affrontato in I miei piccoli dispiaceri. A narrare la storia, scritta in forma di una lunga lettera al padre alcolizzato che se ne è andato e ha fatto perdere le proprie tracce, è Swiv, una precoce bambina di nove anni che vive con la madre e la nonna in una piccola casa alla periferia di Toronto.

Espulsa dalla scuola per l’ennesima violenta reazione a un atto di bullismo, si prende cura della anziana e malata nonna Elvira e della madre Mooshie, una lunatica attrice al nono mese di gravidanza, sempre immersa nelle prove di una improbabile produzione teatrale e affetta da un  disturbo postraumatico da stress. Cresciuta in fretta e resa arguta dagli strampalati insegnamenti che quotidianamente la nonna le impartisce per renderla una «combattente», Swiv si mette al centro della scena e ci conduce attraverso quelle che la nonna chiama le «riunioni di redazione», ovvero le improvvise e incontenibili crisi di rabbia della madre, i comportamenti devianti, i problematici rapporti con la polizia, telefonate e incontri con le amiche di Elvira, nelle quali aleggia il tema della morte, avventurose esplorazioni urbane e, infine, un divertente viaggio a Fresno.

Il tutto avviene in un mondo accompagnato dal continuo emergere del retroterra mennonita, con la sua intransigenza, il suo rigore religioso e la sua struttura patriarcale, del quale Elvira si ritiene vittima e dal quale dolorosamente ha preso le distanze. E tuttavia, la presenza di quel mondo  suona incancellabile, nel ricorso alla «lingua segreta» della nonna, il plautdietsch, il basso o piatto tedesco parlato nelle comunità mennonite del Manitoba, che concorre a caratterizzare, con un tocco leggero di esotismo, la colonna sonora della narrazione, mescolandosi al sottofondo delle serie televisive o alla cacofonia che accompagna le telecronache dei Raptors, la squadra di basket di Toronto.

Come annuncia una poesia di Dylan Thomas, «E la morte non avrà più dominio», ogni pagina sembra riproporre i temi primordiali della nascita, del sesso e della morte in un procedere circolare che alterna momenti comici a altri tragici, la monotonia quasi ossessiva del ripetersi dei piccoli gesti quotidiani con i quali, a ruoli invertiti, la bambina si prende cura della nonna e, spesso anche di una madre disfunzionale che, a causa del suicidio del nonno e della sorella, è convinta di essere ereditariamente destinata alla stessa fine; ma, come direbbe Donald Winnicot, si sforza di essere e apparire «sufficientemente buona».

Passato e presente si rincorrono, dunque, all’interno di una struttura narrativa polifonica dove i ricordi della nonna si alternano al resoconto di Swiv, sostenuti, esplicati e metabolizzati dalle lettere della bambina: le sue e quelle che fa scrivere alla nonna e alla madre. Il fine è quello di dimostrare –  è questa la lezione di Elvira – come di fronte agli eventi più tragici che la vita ci riserva non ci si possa limitare a una sebbene comprensibile passiva accettazione, ma si debba reagire con le due armi in nostro possesso: l’amore e il riso.

Alla dolorosa ricostruzione di Elvira, che ritiene all’origine dei suoi problemi la infausta esperienza della figlia durante le riprese del film in Albania, e forse anche del concepimento della creatura, che porta in grembo, si intreccia il flusso di coscienza di Mooshie, lacerante rievocazione di una discesa agli inferi che si dilata fino a includere la condizione più generale della donna quale vittima di una società maschilista e patriarcale. La filosofia della nonna, però, prevede che a un evento tragico possano e debbano contrapporsi un atto d’amore e uno scroscio di risa: fa al caso il viaggio a Fresno che, all’improvviso, Elvira intende intraprendere per andare a trovare i nipoti, anacronistici sopravvissuti della cultura hippie. Un viaggio sotto ogni punto di vista esilarante, in cui ogni scena sembra rievocare le comiche dei primordi del cinema, compresa quella in cui Elvira va a trovare i vecchi amici di un tempo, ormai in una casa di riposo,  e nell’improvvisare un balletto per loro, cade rovinosamente.

È l’inizio della tragedia finale. L’avventuroso ritorno a Toronto, il precipitare delle sue condizioni di salute, il ricovero in ospedale, l’approssimarsi della morte rendono il finale, in cui emerge la grande maestria di Towes, una sorta di montaggio alternato, in cui due storie corrono apparentemente parallele,  essendo tuttavia destinate a intrecciarsi. Alla lenta e inesorabile agonia di Elvira si contrappone il parto di Mooshie e, ancora una volta, a Swiv è destinato il compito di chiudere il cerchio. «Rapito» il neonato, che a sorpresa si è rivelato essere una bambina, Swiv attraversa di nascosto i reparti  dell’ospedale per far conoscere la neonata alla nonna un attimo prima che lei muoia. Posandola sul suo seno e permettendole di toccarlo come ultimo gesto, Swiv non solo rinnova l’eterno ciclo della morte e della vita ma, insieme alla mamma sopraggiunta, l’indissolubilità e il riproporsi di un legame femminile. «Ci siamo infilate tutte e tre accanto alla nonna nel suo lettino. La mamma ci stringeva tutte. Gord era placcata sotto il braccio della mamma e io sotto quello della nonna, salvo che lei non l’ha saputo».