Se conosciamo ciò che accade all’interno di una comunità mennonita, fra le tante sparse nel mondo, lo dobbiamo a Miriam Toews che di quella appartenenza non ha fatto una furba carta di scambio per il successo bensì il pegno luccicante di una esperienza trasformativa. La sua biografia è stata segnata dunque da un radicamento preciso, decostruito a sua volta e con grande forza dando parola alle proprie simili, come nel caso del suo Donne che parlano (2018).

La condizione umana che viene fuori da ogni romanzo ci arriva puntuale dalle traduzioni che Marcos y Marcos ormai segue da anni consentendoci lo scarto che la letteratura fa raccontando mondi altri e diversi. Nel caso della scrittrice canadese, sono storie che spesso hanno lambito la sua famiglia, rendendola una sopravvissuta là dove la decisione di restare viva è puntellata da dolori di varia entità che l’hanno assediata fin da bambina. I disastri si alleggeriscono, assumendoli uno per uno tra paradossi poetici e la fatica mondata dall’ironia.

Un grande e sottile viaggio dell’intelligenza relazionale, il suo. Anche in questo ultimo romanzo, uscito nel 2000 e che, grazie alla traduzione di Maurizia Balmelli, arriva in libreria adesso con il titolo originale di Swing Low (Marcos y Marcos, pp. 269, euro 18), conferma quella sua grazia inconfondibile consegnandoci la storia di suo padre Mel che nel 1998 ha deciso di morire.

Quando raggiungiamo Miriam Toews per alcune domande, ci risponde dal suo appartamento nel Manitoba in cui si trova da sola, con vista sul fiume ghiacciato Assiniboine, a Winnipeg. Appena finito il periodo della quarantena, nascerà suo nipote e si dice «a disposizione per accoglierlo a braccia aperte in questo assurdo mondo». Del senso di assurdo la scrittrice è maestra indiscussa, della mescolanza di spavento e levità è tessitrice operosa. Certo, prosegue, «se tutto è assurdo, nel bene e nel male, allora la parola non può che essere sbagliata».

A parte il prologo e l’epilogo, la voce narrante di «Swing Low» è quella di Mel. Prima della sua morte, gli dedicava bigliettini, «Starai di nuovo bene», cui lui rispondeva «Per favore, scrivilo di nuovo». Quando ha deciso di ispirarsi alla biografia paterna e in che modo ha lavorato tra verità e finzione?
Il suicidio è una morte particolare. Tante sono le domande che restano senza risposta. Volevo comprendere mio padre, conoscerlo e sapere come e perché aveva potuto prendere la decisione di porre fine alla sua vita. Il giorno prima di morire mi ha confidato che non aveva realizzato nulla, «niente di compiuto». Desideravo mostrare come avesse torto, aveva invece vissuto, lottato e sofferto ed era riuscito a farlo con coraggio, umorismo e amore; aveva toccato la vita di così tante persone, compresi tutti i suoi studenti in classe.
Il rapporto tra verità e finzione dipende da come lo si definisce. Spesso la finzione è più «emotivamente vera» della verità dei fatti.

Tutta la mia narrativa proviene da qui, vicissitudini personali, esperienze, dai miei sentimenti, dai miei pensieri. Penso che romanzare queste cose imponga un tipo di ordine, di rigore, si spera che abbia a che fare con l’arte eppure le parole, i personaggi e le circostanze rimangono vere.
Nel caso di Swing Low, tutto ciò che si verifica nel libro è accaduto nella vita reale, ma ovviamente non sono mio padre e ho dovuto, diciamo così, «diventarlo» per cercare di vedere, sentire attraverso i suoi occhi e la sua mente, e nel contesto delle sue abitudini, del suo carattere e della sua personalità. È stata una sfida ma anche una gioia, mi ha portato così vicino, a conoscerlo, a capirlo, a dargli e restituirgli vita, in un certo senso, da renderlo presente nella stessa mia stanza. Non possiamo mai conoscere o comprendere appieno un altro essere umano, a prescindere da quanto ci sforziamo. Ed è questo il mistero, la frustrazione e la bellezza (e la disperazione) nostra, quell’essenziale solitudine.

Un uomo metodico, gentile e affettuoso, Mel appunta tutto ciò che gli succede, dentro e fuori, dall’affetto famigliare ai diari di viaggio fino alle note sui ricoveri psichiatrici. Il suo libro è un ibrido a metà tra romanzo, memoir e una lunga lettera d’amore, indirizzata non solo a un padre ma anche a una figlia. Cosa le è rimasto dopo averlo scritto?
Mentre scrivevo il libro, mi sono sentita prossima a mio padre. Mi è tornato in mente il suo amore, la sua forza e la sua gentilezza. Inoltre, la sua empatia per i compagni di sofferenza. Quando ho finito di scrivere, però, è successo qualcosa di imprevisto: mi sono immobilizzata, non potevo muovermi. Ho avuto la sensazione di essere paralizzata e sono rimasta a letto per una settimana, a malapena riuscivo a sollevarmi. Non so perché sia accaduto, se sia stato un maremoto di dolore che mi ha colpito e che mentre scrivevo il libro ho potuto impedire mi raggiungesse. Ma ho imparato molto, su di me e su di lui, anche su cosa significa l’atto di scrivere.

Secondo lei la depressione è un termine clinico inadeguato per indicare la profonda disperazione. A Mel la diagnosi arriva da ragazzino, erano gli anni Cinquanta. Ha fatto delle ricerche su ciò di cui soffriva suo padre? Con quali risultati?
Ho letto tutto ciò che ho potuto sulla depressione e il disturbo bipolare, era questo che negli anni si è capito lo affliggeva più precisamente. Sono anche cresciuta con mio padre e quindi sono stata spettatrice della sua tribolazione e delle sue ferite, degli effetti su mia madre, mia sorella e me stessa, su tutti nella comunità. C’era una tale negazione, una tale vergogna e stigma riguardo il dolore psichico di cui mio padre temeva si conoscesse la gravità. Mia madre ha fatto del suo meglio per «coprirlo» e prendersi cura di lui, cercando di accedere alle cure mediche che gli occorrevano. Verso la fine della sua vita smise di vedere il suo psichiatra, cessò gradualmente di fare tutto, in effetti.

«I miei piccoli dispiaceri» (2014) è ispirato invece alla storia di sua sorella, scomparsa nel 2010. Come «Swing Low» è un percorso complesso eppure non ha pensato di parlare per lei come invece ha fatto per suo padre, come mai?
Non mi è mai venuto in mente. Penso perché, forse, le nostre voci (quella di mia sorella e la mia) sono talmente simili e in molti modi. Sarebbe stato un po’ pericoloso, avrei rischiato di scivolare nella mia stessa voce e non avrei reso giustizia al libro o al personaggio di mia sorella. Inoltre, sebbene sia mio padre che mia sorella si siano suicidati, c’era una differenza nella mia reazione. Quando mia sorella morì, ce lo aspettavamo, purtroppo, sapevamo perché sarebbe potuto accadere, c’erano stati altri tentativi, aveva articolato il suo dolore in un modo che mio padre non ha mai fatto, non ho sentito il bisogno di entrare dentro di lei per rispondere a domande su come e perché, al pari di quanto invece avevo fatto quando se n’è andato mio padre.
I miei piccoli dispiaceri è un romanzo su mia sorella, ovviamente, su di me e la mia famiglia, eppure anche su una domanda che rimane centrale: come posso aiutare al meglio questa persona cara che amo e che voglio rimanga in vita, quando ciò che lei vuole veramente è morire?

Secondo lei «i libri sono ciò che ci salva. I libri sono ciò che non ci salva». Qual è il rapporto con la scrittura letteraria?
Per me è semplice. Ho bisogno dei libri per sopravvivere, per dare un senso alle cose, per sentirmi meno sola. Sia leggerli che scriverli, tuttavia c’è un punto, nella vita, in cui niente può salvarti, nemmeno ciò che ti ha salvato per così tanto tempo. Ed è probabilmente utile almeno provare ad accettare quel «punto» con una sorta di pace, di tranquillità. Allo stesso modo in cui nei necrologi si ringraziano i medici e il personale di cura del defunto: «Grazie libri per tutto quello che mi avete donato lungo la strada, per i molti modi in cui mi avete salvato la vita, il corpo e la mente».