Lettere che cadono, s’impuntano, aprono varchi, cercano spazio, formano mondi, invitano a «bucare» la superficie della pagina. L’alfabeto che si spezza per far sì che chi legga possa soppesare le parole, ritrovare la loro sorgente vitale, la loro «oggettualità» e potenza magica nel modellare i pensieri. Così una semplice «O» può affascinare per la sua perfezione e richiamare l’uovo come scultura-matrice, oppure una «A» spianare strade non solo alfabetiche, ma costellazioni concettuali, custodendo dentro di sé l’archetipo dell’aleph.

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Mirella Bentivoglio, artista, critica, storica e poetessa, scomparsa due anni fa all’età di 95 anni, ha lucidamente indagato, nel corso delle sue ricerche appassionate, universi contigui, interrogandosi sul linguaggio e rendendolo opera autonoma, sempre per via di sottrazione e in opposizione alle ridondanze. La sua produzione verbovisuale – che spaziava dai ritmi ironici di versi anche tradizionali ai calligrammi giapponesi, giocando con l’interpretazione – può essere letta come una resistenza (o dissoluzione) del significato-feticcio. La ribellione è condivisa con lo spettatore, chiamato a un ruolo attivo, come un Teseo che deve afferrare il filo e riavvolgerlo. A riproporre l’attività verbovisiva di Mirella Bentivoglio c’è ora una mostra a Roma presso il Mlac della Sapienza (visitabile fino al 3 novembre): Oltre la parola, per la raffinata cura di Ada De Pirro e Angelandreina Rorro, indaga quello scardinamento del logos «pescando» le opere dalla collezione dei fratelli Garrera, Gianni e Giuseppe, i quali – partendo dagli esordi – hanno raccolto la produzione dell’artista, seguendola in ogni fase di sviluppo. C’è anche un’immagine fotografica di Mirella bambina, dodicenne, che si improvvisa come una Hitler stralunata.

La rassegna-studio al Museo Laboratorio attinge alle fonti e attraverso foglietti volanti riempiti con le note minuziose di Bentivoglio, racconta lo zampillare dell’idea, la sua «sillabazione», il costituirsi stesso dell’opera che poi si vede esposta – come testimoniano i dattiloscritti di Vuoto al centro (Amore) del 1966.
Ma fare una mostra che gira intorno a una collezione significa anche entrare in relazione con il principio del desiderio che ha guidato e sottende a quella raccolta. L’allestimento lo rispetta: se i fratelli Garrera si dichiarano sedotti dall’occupazione poetica dei muri e dalla fisicità delle lettere, Oltre la parola non tradisce quella loro prima scintilla d’affezione.