Octave Mirbeau non ha conosciuto la sorte toccata ad altri scrittori francesi fin de siècle d’essere negletto dagli editori moderni e ricercato con accanimento tanto maggiore da un piccolo drappello di bibliofili. In Italia è difficile trovare una copia delle liriche o dei romanzi di Henri de Regnier o una traduzione aggiornata dei libri di Barrès, e persino versioni recenti delle poesie di Laforgue sono difficili a reperirsi. Il diario di una cameriera è stato, invece, da poco ristampato e così altri romanzi di Mirbeau come Sebastiano Roch e Il giardino dei supplizi.
Eppure nel secondo dopoguerra, a circa trent’anni dalla sua morte, sembrava che dell’opera di Mirbeau non dovesse restare molto tant’è che Cocteau, interrogato a tal proposito, si stupì che taluno ancora lo leggesse. Forse il boato della dinamite che questo singolare scrittore aveva accuratamente avvolto nella carta da caramelle, secondo l’arguzia di Anatole France, era stato coperto, negli anni del conflitto mondiale, da fragori ben più sinistri. Gli uomini seppero essere, come suggerì Edmond Wilson, ben più efferati dei boia del Giardino dei supplizi, questi Ping, Pang e Pong che ai tormenti di Turandot hanno aggiunto il pepe del De Sade. E Mirbeau, spuntato l’acume delle sue saette, doveva uscirne come dimezzato.
Ma in Mirbeau c’era dell’altro. Gli impressionisti lo ebbero caro e Monet lo stimò particolarmente; Mallarmé e Gauguin lo giudicarono entrambi un Giusto. Ed era così, giacché l’autore del Diario di una cameriera univa al gusto per la provocazione il più franco coraggio e la più sincera devozione alla causa dell’arte moderna. La cugina d’Edmond de Goncourt lo ricordava in tal modo: «era un cosino impudente come un bambino… La sua grande idea era di esibire il suo coraggio gettandosi sotto gli zoccoli dei nostri cavalli quando noi o gli Andlou uscivamo in carrozza». Questo carattere dello scrittore emerge assai bene dalle sue cronache d’arte, adesso raccolte dall’editore Castelvecchi in un volumetto al quale la veste editoriale un po’ spartana conferisce un’apparenza come di libello tutt’altro che inadeguata. Il titolo, poi, è ben scelto: Passioni e anatemi (pp. 93, euro 12,50). Fra le une e le altre, infatti, si dividono gli articoli scelti dal curatore Paolo Martore sulla base della silloge Notes sur l’art che, all’interno del più amplio volume Combats esthétiques, venne pubblicata per le Nouvelles Éditions Séguier nel 1993.
Le passioni sono tutte per gli impressionisti e per i loro mentori ideali, Delacroix e Corot, mentre gli anatemi si rivolgono all’arte inamidata dei Salon, a quei quadri dove la vita è come soffocata nell’uniforme troppo rigida d’un disegno inappuntabile (ma tra gli artisti di Salon Mirbeau ha l’intelligenza di cogliere la grandezza «moderna» di Puvis de Chavannes). E par davvero che questo genere di tele, nato per ornare le case di ricchi banchieri, sia per Mirbeau il riflesso esatto dei suoi committenti: quadri come specchi sulla superficie dei quali si perpetua, in fanfare di luce, l’oro degli arredi mentre pennellate corrusche e sontuose ripetono il bagliore che s’emana dagli accessori della vita galante. Tutta la vanità di Vienna, «città in cui la moda è ancora più dispotica che a Parigi, l’eleganza più affettata, i piaceri più futili, l’entusiasmo più irrazionale», rivive in Hans Makart i cui nudi femminili sono illuminati «con dei riflessi elettrici» e i cui tendaggi somigliano «a fiamme crepitanti e contorte». E Mariano Fortuny? «Si direbbe che dipinga solo per i palazzetti degli Champs-Élysées e per lusingare l’istinto dei ricchi eleganti di Cuba o del Brasile. (…) Le sue tele scoppiettano da tutte le parti, non c’è un solo punto in quest’orgia rutilante di colore in cui l’occhio possa trovare riposo».
Lo scrittore va un giorno a una mostra che ha per soggetto l’equitazione e ne cava delle osservazioni che sono la sintesi delle sue idee sull’arte: «Il pubblico sarà naturalmente più attratto da cavalli, fantini, lepri che da qualsiasi altro soggetto. Tutto questo emana un aroma d’eleganza, di vita superiore, di scuderia e di sterco di cavallo. (…) Io preferisco vedere i cavalli di Delacroix e di Degas, per quanto mal curati e mal strigliati sembrino, che quelli di Alfred de Dreux, lustri come cilindri di damerini». Altrove quasi vivono i paesaggi di Monet dove «le spighe fitte, quasi rosate, si ergono come una muraglia» o (è il dipinto Scogliera a Étretat) «la bruma sale dal mare, una bruma fitta che la luna rosa, di un rosa sordo, colora pallidamente», altrove le donne di Renoir. Persino l’opera di Bastien-Lepage, pur imperfetta, è da preferirsi, per i suoi accenti sinceri, alla bigiotteria senz’anima di Fortuny, giacché «le sue marine hanno un accento che sbalordisce in quest’innamorato dei campi della Lorena, e le sue notti senza stelle, che bagnano della loro ombra densa villaggi addormentati, hanno una profondità misteriosa».
E sono qui, come si vede, le due anime di Mirbeau, l’una di descrittore appassionato d’uomini e paesaggi e l’altra d’irriverente, d’incendiario. In molte di queste pagine l’autore ha trovato un appassionato equilibrio che smentisce la malignità di Gide per il quale lo spirito satirico gli avrebbe sempre impedito d’attingere il minimo senso critico. Il volumetto di Castelvecchi è meritorio, lo sarebbe stato di più, tuttavia, se le note non somigliassero ad un frizzo di Max Aub dove i pittori maggiori vengono trattati come sconosciuti e i minori come preclari artisti, sui quali è superfluo dare qualche cenno. Nel medesimo articolo tra Stevens, Ribot e Dupré su chi si sofferma la nota? Su d’un «rappresentante della pittura della Rivoluzione e dell’Impero»: Jacques-Louis David.