Juan Martin Guevara è il fratello di Ernesto «Che» Guevara, a cui ha dedicato il libro Mon frère, le Che, scritto insieme alla giornalista francese Armelle Vincent. A lui è dedicata la serata di giovedì 27 nell’ambito della rassegna Al cuore dei conflitti.

Alle 20,30, all’Auditorium di Piazza della Libertà, a Bergamo, Juan Martin incontrerà il pubblico, insieme a Sergio Marinoni (presidente dell’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba), Giuliano Zanchi (Bergamo Festival) e a Chiara Boffelli (Al cuore dei conflitti).

Durante la serata verrà proiettato il film Che, un hombre nuevo, di Tristan Bauer.

Classe 1943, Juan Martin è il minore dei 5 fratelli Guevara. Quando a Cuba trionfò la rivoluzione, aveva 15 anni e avrebbe voluto rimanere con il fratello, ma il padre si oppose.

Nel libro e in questa intervista al manifesto parla di quel rimpianto e della sua militanza in Argentina, come esponente del Partido Revolucionario de los Trabajadores.

La figura di Ernesto Che Guevara è stata analizzata e celebrata sotto molteplici aspetti. Cosa aggiunge il suo libro?

È vero, la figura del Che è stata ampiamente analizzata, però non altrettanto sono stati letti e analizzati i suoi scritti. Quel che maggiormente si conosce è il Diario di Bolivia, o alcune biografie. Io mi sono dedicato a uno studio del suo pensiero. Poi è emersa l’esigenza di contestualizzarlo anche a livello umano: tirando fuori dal mito quella figura così nota. Ho cominciato a lavorare al libro nel 2009. In quel momento ho incontrato Armelle Vincent, che è scrittrice, mentre io non lo sono.

Ed è nato il libro, pubblicato prima in francese e poi in altre 10 lingue. Il suo scopo resta valido, come resta attuale il pensiero del Che. Ernesto è mio fratello e il Che è il mio compagno di ideali. Mi accompagna da quando ho cominciato ad avere coscienza politica e sociale. Non vivo nella sua ombra, ma alla luce della sua azione e del suo pensiero. Rimpiango di non essere stato di più al suo fianco, imparando e condividendo i suoi insegnamenti.

Lei denuncia il commercio del «mito» del Che. Cosa rimane del suo messaggio a 100 anni dalla rivoluzione sovietica?

Già nel 1965 il Che prevedeva che l’Urss stava tornando al capitalismo: non perché avesse la sfera di cristallo, ma in base all’analisi della realtà sovietica di quel momento. Il campo socialista, come si chiamava allora, non è stata una soluzione definitiva. Bisognerà indagare fino in fondo quelle debolezze. Di certo il capitalismo non può portare equilibrio al mondo. Non è solo una questione di giustizia sociale. Si tratta dell’impossibilità di uscire dalle crisi, i conflitti, i disastri, le guerre…

L’obiettivo del potere internazionale è che queste crisi non si trasformino in rivoluzioni come nel 1917 nel 1948 nel 1954, nel 1959…, però già si vede che né il neoliberalismo, né il capitalismo dal volto umano, né il neosviluppismo riescono a mantenere l’equilibrio. Il modo in cui effettuare cambiamenti dev’essere responsabilità dei popoli organizzati e coscienti della necessità di produrli. Inutile speculare sul come….

Lei ricorda il suo viaggio in Bolivia nel luogo in cui venne ucciso il Che. È tornato anche dopo, quando i suoi resti vennero ritrovati in una fossa comune? E si recò a Cuba dove vengono conservati?

Sono stato a Cuba insieme ai miei fratelli quando hanno portato i resti di Ernesto e degli altri compagni lì dalla Bolivia, nel 1997. Poi sono tornato al Mausoleo una sola volta. Sono stato in Bolivia nel 2013 e nel 2014, mi sono recato alla Huiguera e sono sceso alla Quebrada del Yuro. Sono andato alla Escuelita dove lo hanno ucciso e anche a Vallegrande dove hanno esposto il corpo. Mi sono incontrato con le autorità a La Paz: per dire che non serbo rancore ai boliviani.

Che pensa di Cuba oggi?

Il mondo, sempre più globalizzato, è dominato dai mercati e offre soluzioni per pochi. La Cina diretta dal Partito Comunista, potenza mondiale, ha imboccato la strada del capitalismo per competere con gli Usa. Cuba da sola non può trainare il pianeta a liberarsi del capitalismo e degli imperi.

Difende le conquiste per cui ha lottato. È nostra responsabilità lottare in ogni luogo e unirci a livello globale per questa liberazione. Se ci riusciremo, anche Cuba e il Venezuela saranno in salvo.

Lei è stato anche un militante politico. Cosa ricorda di quegli anni in Argentina?

Durante la dittatura civico-militare sono stato in carcere per 8 anni, 3 mesi e 23 giorni. Ricordo i nomi di molti compagni che non ci sono più. Sono stato arrestato a Rosario insieme alla mia compagna Viviana Beguan. Era il 5 marzo del 1975, un anno prima del golpe. Eravamo in casa di alcuni compagni quando un commando in abiti civili ha fatto irruzione. Ci hanno bendati, incappucciati, hanno sparato e minacciato di ammazzarci e portato al penale di Devoto. Dopo il golpe, siamo stati trasferiti al carcere di La Plata, e poi a un penale di massima sicurezza, Sierra Chica. Tra punizioni e trasferimenti, sono stato in isolamento per 3 anni. Non sapevamo se ne saremmo usciti vivi, ma lottavamo per la vita.

Quando avvenne l’invasione delle Malvinas, il 2 aprile del 1982, mi trovavo a Rawson. Il 30 marzo c’era stata una manifestazione contro il governo Galtieri, ma l’invasione servì a dividere l’opposizione e anche i prigionieri. C’era chi si offriva volontario sostenendo si trattasse di una battaglia nazionale antimperialista. Fummo in pochi ad opporci allora. Solo in quella occasione abbiamo avuto diritto alla radio: per ascoltare i proclami militari. Il beneficio finì quando i militari persero le Malvinas e non poterono più arrestare la fine del regime. Va al potere Bigone, si indicono le elezioni. Cominciano le prime liberazioni. Viviana esce da Devoto un po’ prima di me.

E oggi?

Anche se hanno assassinato il Che, non hanno potuto uccidere le sue idee, il suo esempio e il suo essere un referente per la lotta dei popoli. Anche il mio impegno continua. Mi definisco sempre marxista, leninista e guevarista. Marxista perché continuiamo nello stesso ciclo di profitto, di accumulazione di ricchezza prodotta socialmente e confiscata individualmente. Leninista perché senza organizzazione non c’è futuro. Guevarista perché la coscienza è un pilastro fondamentale per non sbagliare strada.

In Argentina, dopo gli anni ’60-70, anni di grandi convergenze, sono seguiti quelli bui e poi altri oscuri e confusi. Poi le cose si sono rimesse in moto, ma ora, dopo il ritorno delle destre, i processi di riaggregazione non sono ancora definiti. Vi sono movimenti sociali molto forti…

Il movimento Ni una Menos propone uno sguardo di genere sul mondo. Cosa pensa dell’ondata di femminicidi?

L’esistenza del machismo e del patriarcato è purtroppo una realtà in Argentina come in altri luoghi. Questa mobilitazione mostra le strade da percorrere per la società nel suo complesso. Chi sostiene il patriarcato di fatto perpetua questo sistema di emarginazione e sfruttamento. Assumere il punto di vista di genere significa spezzare la colonna che lo sostiene.