Kiev si dice «preoccupata», Mosca «pronta all’escalation» se non si raggiungerà alcun accordo e Washington invierà aiuti militari a Kiev, gli Usa, via segretario di Stato Kerry, si dicono «favorevoli» circa la possibilità di inviare armi all’Ucraina (l’indeciso sarebbe Obama), l’esercito ucraino e le milizie ribelli si stanno scannando nelle regioni orientali.

È il tetro quadro che precede di poche ore l’incontro a Minsk, che dovrebbe provare a ricucire una situazione che pare ormai sfuggita di mano. Ieri si è svolta una prima seduta del «gruppo di contatto tra Kiev, Mosca, Osce e separatisti», secondo quanto scritto dall’agenzia Interfax, che ha citato «una fonte vicina alla preparazione dell’incontro di Minsk».
«La priorità – ha detto la fonte – è il cessate il fuoco e lo sviluppo di meccanismi per monitorarne il rispetto». In precedenza il Cremlino aveva annunciato questa prima riunione di contatto, mentre ieri sono nuovamente risuonate in modo sinistro le parole che arrivano dagli Stati uniti, dove si rafforzerebbe ogni giorno di più la fazione di chi ritiene che la cautela di Obama abbia effetti deleteri, rischiando di trasformarsi in un pericoloso appeasement nei confronti di Vladimir Putin.

«È una situazione seria, e si ha la sensazione che il presidente non lo comprenda», ha affermato, parlando con il Washington Post, un ex funzionario dell’amministrazione che da tempo – è specificato – si occupa di Ucraina. Analoghe sensazioni le ha espresse Dennis Ross, diplomatico di lungo corso, già inviato di Bill Clinton per il Medio Oriente e e consigliere del segretario di Stato Hillary Clinton per l’Iran. «Il rischio di puntare sulla debolezza e lasciare che la cosa si evolva è che Putin può anche così provocare molti danni», ha affermato Ross, ora analista al Washington Institute for Near East Policy.

E secondo i consueti bene informati, le questioni mediorientali peserebbero non poco. La cautela di Obama deriverebbe dal negoziato iraniano sul nucleare, che sta vivendo le fasi cruciali a Ginevra. Obama dunque agirebbe in modo cauto rispetto a Putin, per non compromettere il suo potenziale ruolo positivo a margine di quella trattativa. Oltre a queste riflessioni di carattere geopolitico, ci sono alcune considerazioni che precedono qualsiasi decisione verrà presa a Minsk, con l’auspicio che si possa arrivare ad un – quanto meno – «cessate il fuoco». Innanzitutto la condizione economica del paese.

Secondo quanto scritto ieri da Reuters, «il Fondo monetario internazionale starebbe valutando un pacchetto di aiuti molto più grande per l’Ucraina, riconoscendo che il paese è sull’orlo della bancarotta».

Una fonte avrebbe detto alla Reuters che il pacchetto complessivo potrebbe arrivare a circa 40 miliardi di dollari. Un team del fondo monetario sarebbe da giorni a Kiev per colloqui con le autorità ucraine, per ragionare sul rafforzamento del sostegno finanziario. A gennaio sarebbe stato deciso un programma di finanziamento più a lungo termine e superiore ai 17 miliardi previsti. Secondo le fonti dell’agenzia Reuters, «17 miliardi dollari non sarebbero sufficienti a salvare l’Ucraina».

Infine, una constatazione, per molti versi simile alla cautela di Obama su Putin. Si parla infatti di accordo, negoziato, ma non si nomina più la Crimea, considerata da mezzo mondo la responsabilità più pesante di Putin nei confronti dell’inegrità territoriale ucraina. L’annessione della Crimea sembra data ormai per scontato, tanto dai russi, ma è logico, quanto da europei e da Poroshenko. Come mai, infatti, Kiev non rivendica più quella zona di paese annessa alla federazione russa? Secondo Fulvio Scaglione, che ne ha scritto sull’ultimo numero di Limes, la risposta è semplice: la Russia ha permesso la riattivazione di alcuni impianti precedentemente chiusi della Roshen, l’azienda che produce cioccolato, di proprietà di Poroshenko.

Sarebbe dunque in atto una sorta di gentlemen’s agreement, suggerisce Scaglione: Putin ha assicurato il business a Poroshenko, che in cambio avrebbe «dimenticato» la Crimea.