Chi ci parla tutti i giorni non ha dubbi, Marco Minniti è deciso a correre alle primarie del Pd. Eppure l’annuncio ufficiale della sua candidatura slitta. Da un mese. Da quando tredici sindaci renziani – nel frattempo Nicola Zingaretti ne ha messi insieme duecento – si sono appellati a lui come «figura dal profilo democratico e unitario», «la figura giusta per guidare il nostro partito».

L’OCCASIONE BUONA per il lancio della corsa doveva essere martedì scorso, alla presentazione del suo libro, Sicurezza è libertà, di fronte a un parterre composto da maggiorenti del Pd ma anche giudici, magistrati, militari, uomini di chiesa. Un mondo di voti in via di estinzione eppure sempre prestigioso. Ma in quello stesso giorno, in mattinata, l’ex ministro ha raffreddato i cronisti: «Ci sto pensando. Accetterò se serve per garantire al Pd un percorso più unitario, non se invece dovesse servire per ulteriori frantumazioni». Quello stesso giorno in realtà aveva fatto anche un’altra cosa: incontrato alcuni autorevoli esponenti renziani assicurando loro che entro 48 ore, massimo 72, avrebbe sciolto la riserva. Ovvero prima del seminario a porte chiuse della corrente dell’ex leader che si svolge oggi e domani a Salsomaggiore. E invece no: il termine scade, l’annuncio slitta ancora.

(foto di Aleandro Biagianti)

MINNITI SARÀ AL SEMINARIO più che altro per ascoltare, viene spiegato. Sta ancora riflettendo. «Non faccio il prezioso», aveva garantito lui stesso alla presentazione del libro. «Ci sta pensando davvero», giura Nicola Latorre, suo amico e sodale.

IL PUNTO NON CHIARO, ancora, neanche a Minniti, è cosa farà davvero Renzi. Ieri in Transatlantico circolava di nuovo la suggestione che l’ex segretario potrebbe incoraggiare anche una donna a correre per la segreteria. Un boato largamente improbabile, figlio solo dell’incredibile ralenti con cui il Nazareno si avvia la macchina congresso. A sua volta causato dalla speranza dell’ex segretario, e non solo, di far slittare il congresso.

MA LO SLITTAMENTO è un periodo ipotetico dell’irrealtà, a meno di cataclismi al governo. La realtà è che la corsa di Minniti non sarà un pranzo di gala: con Zingaretti e Martina in campo, e cioè altri due nomi di peso, è molto probabile, se non certo, che il nuovo segretario si deciderà nell’assemblea nazionale. Dove i renziani sarebbero schierati con Minniti, gli antirenziani con Zingaretti, e Martina tenterebbe di incarnare il profilo dell’«uomo di sintesi». Un’eventualità dell’esito incerto. In questo caso il pronostico non è favorevole a Minniti.

NON ERA QUELLO CHE l’ex ministro dell’interno aveva in testa all’inizio. Quando era convinto, forse anche era stato convinto, che la sua candidatura sarebbe stata perfetta per unire il partito e metterlo al riparo da una scissione a destra (tecnicamente parlando), il progetto di Renzi per il dopo-europee. «Il suo è il profilo giusto per non far scappare Matteo ma anche per metterlo in condizione di non nuocere, grazie alla riconosciuta autonomia che ha dall’ex segretario», spiega un dem di lungo corso.

MA È UN ASSETTO in cui Renzi e quelli che gli sono rimasti fedeli non riescono a stare. Lo si è visto ieri pomeriggio alla riunione della commissione statuto. Sul tavolo c’era la proposta della sinistra di separare sin da questo congresso la figura del segretario da quella del candidato premier. Di buon mattina arriva il no di Dario Parrini, di Roberto Giachetti e del professore Stefano Ceccanti, tutti di area renziana. «Un ritorno al passato di cui non si avverte il bisogno» per il primo; «Una norma chiave dello Statuto, che, caso mai, può seguire i risultati di un congresso e non precederlo», per il costituzionalista, fra gli autori dello statuto, «strano che la sua abolizione venga proposta dai fan più convinti di Costa, Sanchez e Corbyn, tutti investiti del doppio incarico e i primi due al governo in coalizione grazie a leggi proporzionali». Zingaretti invece sarebbe favorevole, in via di principio, ma contrario alla minacciata «stretta» sulla platea dei soli iscritti.

NELLA RIUNIONE arriva puntuale il fuoco di fila degli interventi contrari. Alla fine il presidente della commissione Gianni Dal Moro riferisce: «Abbiamo deciso all’unanimità di consegnare le riflessioni emerse dai nostri lavori al contributo delle mozioni congressuali e al coinvolgimento dei livelli territoriali per riprendere dopo la fase congressuale il lavoro finale». Insomma, se ne riparla nel Pd che verrà. Un’ennesima prova di forza, la dimostrazione che Renzi nel partito conta ancora, e molto.