Franco Berardi Bifo ha il dono, quando scrive, di esprimere un punto di vista che nulla concede all’ideologia dominante, ma non fa neppure sconti al pensiero critico. Negli ultimi anni, ha concentrato la sua attenzione sulle psicopatologie emerse dalla controrivoluzione neoliberista. E ha molto riflettuto sul fatto che la dilatazione della giornata lavorativa – quel fenomeno che vede un opaco e incerto confine tra tempo di lavoro e tempo di vita – e la sua traduzione contrattuale (la precarietà) venga affrontata dal singolo facendo spesso ricorso a droghe sintetiche di ultima generazione o Prozac. Ha inoltre sottolineato che la mutazione neoliberista ha come pilastro l’interiorizzazione del controllo, che inibisce l’agire politico e il conflitto del lavoro vivo contro il «nuovo» regime di accumulazione. Dopo il futuro (DeriveApprodi, pp. 133, euro 14) affronta invece l’assenza di futuro, cioè il venir meno della dimensione progettuale che caratterizza comportamenti collettivi, pratiche di movimento e politica della trasformazione. Assenza interpretata come sintomo di un avvenuto collasso della modernità.

Avanguardie dello stile

Libro dai toni fortemente apocalittici, ma non disperati. Bifo lo ripete spesso: c’è ancora una possibilità per cambiare lo stato di cose presenti, ma solo sperimentando forme di cooperazione sociali e di stili di vita disancorati dalla politica. Non ci sarà dunque, continua l’autore, nessun movimento sociale palingenetico o annuncio messianico del sole dell’avvenire. Nell’esporre il suo punto di vista, Bifo lo radicalizza, come è nel suo stile, come quando perentoriamente sostiene che il secolo alle nostre spalle sarebbe stato migliore se Lenin non ci fosse stato; o quando rivaluta l’antimodernismo dello scrittore Pier Paolo Pasolini.

Affermazioni e rivalutazioni che hanno il sapore acido della rinuncia alla critica politica del presente, ma più tollerabili se inseriti nel panorama sulla modernità novecentesca disegnato da Bifo. Per fare questo, è indispensabile analizzare il ruolo delle avanguardie artistiche dei primi decenni del Novecento, la loro capacità di modulare diversamente il legame tra passato, presente e futuro. L’attenzione si concentra sul futurismo, sia nella sua versione italiana che russa. In entrambi i casi, la libertà è possibile solo se si radicalizzano alcuni elementi del presente. L’industrialismo, l’enfasi sulla tecnica, la connotazione positiva della violenza sono ritenute le chiavi di accesso a un futuro dove siano cancellati tutti gli elementi che rendono impossibile la piena libertà. E se in Italia Marinetti spinge sul tasto sulle macchine e la guerra come fattori purificatori, nella Russia prerivoluzionaria il futurismo punta le sue carte sul proletario e sulla possibilità di cambiare la vita già nel presente attraverso un uso accorto e «politicizzato» della prassi artistica. Il problema, in tutte e due le esperienze, è l’enfasi posta sulla violenza, sulla dimensione pedagogica dell’arte, sul potere normativo esercitato dal Politico sulla società e sui singoli. In Italia questo significherà l’adesione convinta dei futuristi al fascismo, in Russia alla rivoluzione dei soviet.

I futuristi italiani saranno delusi dal nuovo regime e useranno i loro «giochi» linguistici per osannare l’industria, sconfinando nella «reclame». In Russia, il suicidio di Majakoviski sarà l’annuncio, inascoltato, della imminente trasformazione di quel paese in un carcere a cielo aperto, una volta che i conflitti dentro il Pcus saranno vinti da Stalin.

Fotografia del presente

Lettura semplificata, quella di Bifo, nonostante metta al centro della riflessione i nodi cruciali, ma mai sciolto tra produzione artistica e agire politico, tra prassi artistica e vita. Rimane non sciolto anche il rapporto tra violenza e azione politica. Affermare che Bifo sia diventato un pacifista radicale sarebbe una forzatura, ma è evidente, nelle pagine di questo libro, un rifiuto dell’uso della violenza come mezzo per raggiungere un obiettivo.

Le parti del saggio che si misurano più con il presente sono quelle che affrontato la «grande svolta» del neoliberismo. Anche in questo caso, Bifo non ha mezzi termini. Se il Sessantotto è il simbolo dell’ultimo tentativo globale di rivoluzionare i rapporti sociali di produzione – «siate realisti, chiedete l’impossibile», recitava il Maggio francese -, il Settantasette è l’anno che annuncia l’inizio del collasso della modernità. Tanto quanto il Sessantotto è sperimentazione di forme inedite di azione politiche – Bifo rivaluta il free-speech, l’happening, il teatro di strada del movimento statunitense -, tanto il Settantasette è sinonimo di fine del progetto. Il riferimento non è solo al movimento italiano, ma anche al punk inglese, all’inizio della «rivoluzione del silicio» californiana, ai documenti sovietici sul rischio di un’implosione del socialismo reale se i governi non avessero intrapreso, come è poi avvenuto, politiche di innovazione tecnologica e sociale.

Tutti fattori che rendono il «no future» del punk non un urlo disperato, bensì la fotografia in bianco e nero di quello che era diventato il capitalismo. Non è un caso che Bifo guardi al cyberpunk come una sorta di avanguardia artistica che non invita a trasformare il mondo, piuttosto a sviluppare stili di vita e forme minoritarie di cooperazione sociale che testimoniano una possibile alternativa all’apocalisse. È la tecnica che vince, che avvia quasi una mutazione cognitiva. Il cyborg, più che un innesto di tecnologie su un corpo umano, è la metamorfosi dell’animale umano causata dalla tecnologia digitale. La connessione permanente dei singoli al web è il capitolo finale di tale metamorfosi.

Immaginare l’alternativa

Il collasso della modernità coincide quindi con il mutamento del Politico in algida amministrazione dell’esistente. Anche qui c’è la capacità di individuare una tendenza, che è però entrata in crisi quando il neoliberismo ha raggiunto la fine della sua corsa. Proprio perché il capitalismo cognitivo ha bisogno di innovazione, di intelligenza collettiva, di passioni, la politica deve manifestare una capacità «immaginifica», progettuale a suo modo. Più che guardare quindi alla crescente provincializzazione dell’Europa e degli Stati Uniti, occorre puntare lo sguardo là dove il capitale si presenta come rapporto sociale, ma anche modello di società.

Nella geografia variabile del regime di accumulazione, la politica torna dunque ad occupare il centro della scena. In un classico movimento del pensiero critico, vale dunque la pena immaginare una politica della trasformazione che accetta di misurarsi con il futuro da costruire a partire proprio da quegli stili di vita, esperienze di cooperazione sociale che si manifestano in questo opaco, ma non apocalittico presente.